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Conferenza Incontro con il lariosauro (Como, 3 marzo 2006)
IL PARTIGIANO E IL LARIOSAURO
brani dal libro di GIOVANNI GALLI Il lariosauro
[1]
adattati e recitati da STEFANO BRESCIANI
Quel primo venerdì di marzo il sole faceva fatica a scaldare. Dov’era
quel sole di Lombardia così bello quando è bello, così
splendido, così in pace? Per di più mentre avanzava verso il luogo
dove voleva buttare la lenza incrociò due barche. Gli gridarono: “Uè,
ti, torna a ca tua”. Cos’è? Solo i residenti potevano pescare
lì? Non risposero. Erano in quattro contro uno. Ci battiamo per la fraternità
dei popoli e poi ci ritroviamo a litigare tra pescatori dello stesso lago.
Era davvero l’ora più buia. Panàn si mise all’opera:
inescò gli ami coi cucchiaini luccicanti, spinse la barca adagio svolgendo
la lenza per una cinquantina di metri.
In effetti la pesca alla dirlindana è un’arte complessa. Scelta
la zona di pesca, occorre valutare la profondità dove si possono trovare
i pesci, piombando la lenza non troppo, se no tocca il fondo e rischia di impigliarsi.
E poi deve essere robusta a seconda del pesce che si vuol prendere: un conto
è prendere un persico, che se è grosso arriva a un chilo, e un
altro è prendere una trota, che può pesare fino a dieci chili.
E poi le esche, a seconda di quel che mangiano i pesci: alborelle, cioè
pesci vivi, oppure esche artificiali, cucchiaini, pezzi di metallo lucente con
piume, stoffa, madreperla ed altro. Se tutto è fatto a regola d’arte,
la cattura è assicurata.
Uno strappo violento alla lenza ed ecco per Panàn la prima cattura.
“Vieni, vieni, bello. Vieni, eh, vieni, fatti prendere dallo zio. Vieni,
fatti prendere, fatti prendere dallo zio. Ehi, guarda qua. Tanto ormai non scappi
più, caro mio. Eh no, eh, vedrai, stasera, che ti ritrovi con un bel
limone in bocca. E piantala di tirare, per la miseria. Tanto ormai non vai più
da nessuna parte”.
Una bella trota argentata di due chili. Una bella trota da ristorante. E dopo
nemmeno un’ora Panàn ne prese un’altra, bella grassa. E allora
decise di tornare verso casa. Sì. Perché… perché
non fare un bello scherzo a quelli che prima gli avevano gridato “Uè,
ti, torna a ca tua”. Sì. Si fermò a Bellagio, all’imbarcadero,
nell’albergo Grande Bretagne e andò a offrire le due meraviglie
appena pescate al capo cuoco che fu contentissimo di comprarle: avrebbe fatto
un figurone per la cena. Così Panàn tornò a casa con tre
bei bigliettoni da mille lire in saccoccia.
Quando, verso le tre, arrivò in vista della spiaggia, vide una figura
femminile seduta sul muretto. Era la Cate.
“Ciao, Cate, cosa ci fai qua sulla spiaggia. Aspetti qualcuno?”
“Eh, aspettavo te?”
“Me?”
Panàn non trovò subito la risposta giusta. Era un timido. Legò
la barca, la coprì con il telo, tolse i remi e mise tutto nel ripostiglio.
“Panàn, non hai pescato niente oggi?”
“No, no: oggi è stata una giornata… una giornata fortunata.
Ho preso due trote così. Le ho vendute a Bellagio”.
Quasi quasi… quasi quasi Panàn ci provava. Be’, la Gianna
l’aveva mollato, quindi la fidanzata non ce l’aveva più.
Sapeva che la Cate aveva un debole per lui.
“Senti, Cate, se stasera… se stasera vuoi, ti invito a cena. Eh,
però prima devo passare a casa a cambiarmi che sono un po’…
un po’ bagnato. Sai, son stato fuori a pesca”.
“Va bene, va bene” disse la Cate “Ti accompagno”.
“Mi accompagni… Guarda, eh, cioè, non spaventarti del disordine
in casa mia, per favore. Sai com’è, sono un uomo solo, cioè…”
“No, no, non ti preoccupare, Panàn. Non mi spaventa il disordine.
Dammi un bacio, piuttosto”.
Un bacio? E vai col bacio. E vai con un altro bacio e via dicendo, fino alla
camera da letto e lì: ti amo Panàn, anch’io Cate. Bugiardo
d’un uomo, eh, fino al giorno prima c’era solo la Gianna nel suo
cuore e adesso di colpo la Gianna svanita e subito a consolarsi con un’altra.
“Senti, però, Panàn, io ho una fame lupa, sì. Non
hai niente in casa da mangiare?”
“Eh, no, mi dispiace, non c’è niente in casa. Eh, se no cosa
t’invitavo a fare al ristorante, scusa?”
“Oh, ma… mi inviti al ristorante… Ma sei diventato ricco?
Cos’è che hai pescato? L’oro di Dongo?”
“No, no, no, te l’ho detto prima, scusa: due trote. Eh, le ho vendute
al ristorante, m’han dato tremila lire, ti invito al ristorante, no?”
“Ma senti… ma… al ristorante?”
“Sì, sì, ti va di cenare al Cavallo Bianco?”
“Al Cavallo Bianco, scusa, ma ci vorrà il vestito della festa”.
“No, tranquilla, va bene quel vestito lì, sai. Poi ti riaccompagno
a casa”.
“No, non c’è bisogno. Stasera dormo da te. Ho detto ai miei
che stavo da una mia amica, che mi fermavo a dormire da lei”.
Panàn la guardò a bocca aperta. Aveva organizzato tutto. Tutto
aveva organizzato. Aveva fatto tutto lei. La cena fu superba e gran parte della
notte la Cate e Panàn la dedicarono all’amore, lasciando da parte
il sonno. Tanto il giorno dopo era domenica e nessuno dei due doveva andare
al lavoro.
La settimana dopo Panàn propose al fratello Davide di uscire con lui
a pescare. Quel sabato pomeriggio tirava vento, ma erano in due a remare, per
fortuna. Panàn impiombò e inescò la lenza, poi la gettò
e disse al fratello di andare adagio adagio verso il centro del lago. Quando
fu svolta per una cinquantina di metri, Panàn bloccò il rocchetto
mentre il fratello dava ogni tanto un colpo di remi per far muovere le esche.
Il primo strappo. No: falso allarme. Il pesce era troppo piccolo. Ma il secondo…
il pesce aveva abboccato!
“Vai, vai, Davide! Davide, è grosso! Vagli dietro. Vagli dietro.
Oh oh oh, dobbiamo stancarlo, eh. Intanto tira. Sì, va bene così.
Va bene così, però continua, continua finché è vicino
alla barca. Porca miseria, dov’è il retino? Ma… Sotto la
panca? Ma sotto la panca lo dovevi mettere? Dammelo qua. Dammelo qua. No, no,
fai una cosa: tienilo tu. Sì, tienilo tu. Tienilo tu, oh, dai, io te
lo tiro vicino alla barca, Dai dai dai dai dai dai dai… Oh, questi qua
saranno almeno tre chili di carne. Va’ che roba! Ah ah! Davide, oh, ti
sei imbambolato? Ma cosa diavolo succede adesso, eh? Oh, no! Ma dai… Ma
no, ma scusa, ma cosa diavolo succede? Non verrò mica a piovere adesso,
proprio adesso che ne abbiamo presa una? Davide, ma mi stai ad ascoltare?”
No, non lo stava ascoltando. Lo sguardo di Davide era lontano, come se avesse
visto qualcosa di strano.
“Davide! Davide! Ti sei imbambolato?”
“Cos’è quella cosa che sta venendo verso di noi? Tu, tu,
tu…”
“Davide, non lo so. Prendi i remi e tira verso riva”.
“No, no, non ce la facciamo”.
“Come non ce la facciamo? Ce la facciamo! Tu prendi i remi e tira verso
riva. Sta calmo e continua a remare. Se è un pesce, lo prendiamo a remate.
Se no, se no… Davide, tu non ci credevi, eh? E’ lui. E’ il
mostro, sì. Sta calmo, perdìo, sta calmo e tira con i remi verso
riva. Sì, è proprio lui. Lo riconosco dal fischio”.
Ora il lariosauro emergeva dalle acque. Mentre Davide se ne stava seduto con
il remo tra le mani, come paralizzato, Panàn salì in piedi sul
sedile di poppa.
“Vieni qua, eh, vieni qua, maledetta bestiaccia, che ti spacco il muso.
Vieni, vieni, animaccia nera, vieni! Hai paura, eh? Hai paura dei comunisti,
eh, brutto fascista! Eh, vieni qua! Vieni, se hai il coraggio. Eh, cosa fai?
Ma… te ne vai? Eh? Uè, se n’è andato… Vigliacco!
Il mostro emise un ultimo fischio e si immerse.
“Mettiti ai remi. Torniamo a casa, dai”.
“E non dire niente di quello che hai visto… Come perché? Perché è un segreto. Capito? No, non possiamo avvisare i carabinieri… No, ti ho detto che sabato voglio tornare e uccidere il lariosauro. Da solo. Sì, ucciderlo. Ucciderlo, sì. Mi procurerò una fiocina e poi ho sempre la pistola che avevo quando ero partigiano… No, non l’ho consegnata. Ho consegnato il mitra, ma la pistola me la son tenuta. L’han fatto tanti e l’ho fatto anch’io. E adesso è il momento di tirarla fuori… No, non faccio stupidate, Davide, non faccio stupidate. E non rischio neanche di avere delle grane… No, non devi avere paura: ci starò attento… Perché lo voglio uccidere? Mi domandi perché lo voglio uccidere? Il mostro lo può uccidere solo un comunista… Perché? Ma… ma allora… Ma allora, oh, Madonna del Signore, ma allora sei proprio bambo, eh? Ma il lariosauro è la reincarnazione del fascismo. Ecco perché lo può uccidere solo un comunista!”
Il sabato era normalmente giornata lavorativa, ma il 26 aprile il cotonificio
rimase chiuso perché c’erano dei telai da sostituire. Panàn
uscì di casa verso mezzogiorno. Aveva in spalla l’asta della fiocina.
L’arpione era nella sacca, insieme alla pistola. Messa in acqua la barca,
in un’ora arrivò sul posto. Gettò la lenza, preparò
la fiocina, caricò la pistola. Si mise in attesa. Quel giorno, però,
i pesci e il lariosauro sembravano essere andati in vacanza. Decise di ritirare
la lenza e andare verso la Conca dell’Olio, dove le acque del lago rimangono
tranquille anche quando c’è tempesta. Mentre ormeggiava la barca
al pontile di Ossuccio, caddero le prime gocce e subito fu diluvio.
“Uè, ha scelto la giornata sbagliata per pescare” disse il
padrone dell’osteria.
“Eh, pare proprio di sì” disse Panàn.
“Comunque non dura, eh, prima di sera smette”.
Alle sei smise di piovere, ma era troppo tardi per tornare. Panàn telefonò
al circolo chiedendo di avvisare la Cate che non sarebbe tornato. La barca,
scomoda, era sicuramente più economica della locanda. Di dormire sul
pontile, però, aveva paura: se qualcuno veniva a controllare, magari
i carabinieri, con la pistola nella sacca… Meglio la spiaggetta, sì,
dormire per terra, nell’erba, usando il telo della barca per ripararsi
dall’umidità.
Acquattato nella sua tana, il lariosauro si preparava allo scontro. Panàn era il vero nemico contro il quale combattere. Dopo l’esperienza del Pian di Spagna aveva imparato a diffidare degli uomini, sì, di quella strana arma degli umani che colpiva da lontano, ma quel pescatore, Panàn, insomma, sembrava non possederne una.
Panàn si svegliò alle prime luci del giorno. Era venuto qui per
cercare il lariosauro e non poteva tornare a mani vuote, non poteva fare la
figura del vigliacco e dello sbruffone. Pensava alla Cate, pensava a suo fratello.
Si diresse verso il centro del lago, dove aveva incontrato il mostro una settimana
prima. Arrivato, Panàn volto la barca: non voleva farsi prendere alle
spalle. Armò la pistola, controllò l’arpione, legò
la corda della fiocina all’anello di prua e si mise in attesa. Una nebbia
leggera aleggiava qua e là e fu proprio in questi banchi che il lariosauro
mise fuori la testa. Panàn vide il suo nemico e balzò in piedi,
la pistola nella sinistra e l’arpione nella destra. Il mostro si immerse,
ma Panàn non abbassò la guardia. Un urto violento gli fece capire
che il lariosauro aveva accettato la sfida. Il mostro riapparve in tutta la
sua paurosa imponenza. Sì, Panàn prese la mira e con calma sparò.
Colpito! Ma un altro urto gli fece capire che il lariosauro non era morto. Anzi,
la ferita lo aveva reso ancora più aggressivo. Lo vide tornare sotto
il pelo dell’acqua e quando gli fu a tiro, sì, scagliò la
fiocina con tutta la forza che aveva in corpo. La punta entrò nelle carni
dell’animale, la corda si tese per tutta la sua lunghezza. La barca venne
trascinata verso Colonno, ma improvvisamente la corda ricadde in acqua molle.
Il lariosauro stava tornando alla carica. Panàn sparò due colpi,
ma la barca ondeggiava troppo e mancò il bersaglio.
“Ehi, voi… Uè, ti, te se drée a fa, eh?”
E proprio mentre alzava gli occhi per vedere chi aveva parlato, il mostrò
arrivò sotto la barca e Panàn cadde in acqua. Si aggrappò
al bordo per cercare di risalire, ma non ci riuscì. Inferocito dall’arpione
che gli lacerava le carni, il lariosauro si gettò su di lui e con un
colpo delle sue mandibole troncò di netto la sua giovane vita.
Gli amici, la sua donna, suo fratello: nessuno parlò dei motivi che lo avevano spinto a morire lontano dal suo paese. Sia la Cate che l’Armando non erano poi tanto sicuri che Panàn avesse incontrato veramente il lariosauro. Davide, il fratello, invece, col passare del tempo si rese conto che dopo la morte di Panàn toccava a lui riprendere la caccia. E fu una lotta lunga, una lotta che portò avanti insieme ad altri negli anni successivi fino ai giorni nostri, una lotta che altri continueranno anche in futuro perché il mostro non è morto e può riemergere dalle acque pacifiche del lago da un momento all’altro.
[1] Stefano Bresciani ha ripreso, adattandolo, il testo dei capitoli 16 (pp.118-127), 18 (132-136), 19 (parte iniziale, pp.137-138), 23 (pp.149-151), 25 (p.157), 26 (pp.158-162), 29 (p.169) del libro di Giovanni Galli.