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INCONTRI MEDITERRANEI

mostra presentata alla biblioteca comunale di Moltrasio, 3 ottobre - 6 novembre 2006

testi e foto di Eletta Revelli

Balenottera comune | Capodoglio | Zifio | Globicefalo
Grampo | Tursiope | Stenella striata e delfino comune
Lampreda | Pesce luna e gabbiano | Tartaruga e cernia

 

Il Mediterraneo e il Santuario Internazionale dei Cetacei

La geografia - Il Mar Mediterraneo viene considerato un bacino semichiuso; l’unica apertura che lo mette in comunicazione con gli altri mari del mondo è lo Stretto di Gibilterra che, però, risulta essere molto piccolo con un’ampiezza di circa 10 km e una profondità di poco superiore ai 300 metri. Il Canale di Suez, lo Stretto dei Dardanelli e quello del Bosforo sono ancora più piccoli e, in pratica, influenzano molto poco la vita del Mediterraneo.

L’etimologia – Il Mar Mediterraneo non ha sempre avuto la forma che conosciamo oggi e la sua geologia spiega l’origine e il significato del nome. Nel Permiano, infatti, circa 240 milioni di anni fa, tutti i continenti erano riuniti in un unico grande blocco, la Pangea, circondato da un immenso mare, la Tetide. Grazie alla lenta deriva dei continenti, la Pangea si frammentò nei vari continenti e il mar della Tetide cominciò a rimpicciolirsi sempre più fino a quando raggiunse la forma attuale dovuta al ricongiungimento del blocco africano con quello eurasiatico. Questo piccolo tratto di mare rimasto “intrappolato” tra due grandi continenti è il Mar Mediterraneo ed è ciò che rimane del grande mar della Tetide. Mediterraneo significa infatti “mare in mezzo alle terre”.

Caratteristiche oceanografiche - Per poter studiare e comprendere la vita che si ha in un determinato ambiente, bisogna conoscerne le caratteristiche chimico-fisiche ed oceanografiche.
In Mediterraneo vi è una circolazione di acqua fredda e leggera che entra da Gibilterra e si distribuisce sulla superficie del mare. Essendo un bacino semichiuso, nelle acque del nostro mare si verifica un’elevatissima evaporazione causata dall’irraggiamento solare. Si ha in questo modo una maggior salinità delle acque interne al bacino. La salinità del Mediterraneo è infatti molto alta, 37-38‰. Questa acqua più salata risulta essere anche più pesante e, di conseguenza, cade sul fondo del mare e tracima successivamente, dopo aver fatto il giro di tutto il bacino, attraverso lo Stretto di Gibilterra. In questa zona si hanno quindi due correnti di acqua differenti: una leggera e superficiale in entrata, e un’altra pesante sul fondo in uscita.
Un’altra particolare caratteristica oceanografica del Mare Nostrum è la temperatura delle sue acque. Negli altri mari del mondo, si osserva normalmente una diminuzione della temperatura dalla superficie al fondo del mare; in Mediterraneo, invece, si hanno fluttuazioni stagionali molto elevate con una conseguente escursione termica nelle acque superficiali fino a 14°, valore nettamente alto. In aggiunta, in profondità, la temperatura si mantiene sempre costante, sia d’estate che d’inverno, intorno ai 13°.
Il Mediterraneo viene considerato un mare povero e poco produttivo (oligotrofo) per quanto riguarda la produttività primaria, ossia la quantità di biomassa prodotta dagli organismi vegetali attraverso la fotosintesi. Il ciclo biologico della materia prevede che tutta la sostanza organica presente in mare, sottoforma di animali e vegetali, una volta morti gli organismi, cada sul fondo del mare e venga trasformata in sostanza inorganica grazie all’opera di particolari batteri decompositori che vivono sul fondo marino. Ciò avviene anche in Mediterraneo, ma a causa della corrente che abbiamo visto essere presente sul fondo, gran parte di questa sostanza inorganica viene persa tracimando dallo Stretto di Gibilterra.
Ciò causa una riduzione del numero di specie animali e vegetali rispetto a quello osservato negli altri mari più produttivi. Tuttavia, grazie a un fenomeno oceanografico particolare, questa “povertà” non si osserva in una zona del Mediterraneo, ossia nel Bacino corso-ligure-provenzale,.

Il Bacino corso-ligure-provenzale – E’ delimitato dalla costa italo-francese tra Genova e Tolone, la Corsica occidentale e la Sardegna occidentale. Esso è caratterizzato da una profondità media di 2300 metri ed è direttamente collegato all’Oceano Atlantico grazie ad una corrente superficiale proveniente dallo Stretto di Gibilterra. Questa corrente si biforca all’altezza dell’Algeria: un ramo si dirige verso le coste occidentali della Sardegna e della Corsica, l’altro costeggia la costa tirrenica italiana. In prossimità di Genova le due correnti si ricongiungono e si mescolano alle acque di origine continentale portate dal fiume Rodano. Un vortice ciclonico antiorario è tipico del Bacino corso-ligure-provenzale durante la stagione estiva; esso crea una risalita delle acque profonde ricche di nutrienti, fenomeno noto con il nome di upwelling. Durante il periodo autunnale questo fenomeno è dovuto all’attività di venti provenienti dal continente, ovvero tramontana e maestrale; ed è proprio questo rimescolamento verticale, in concomitanza con altri parametri chimico-fisici e oceanografici, quali l’intensa evaporazione e l’immissione di nutrienti dal Rodano, a determinare le condizioni per una elevata produttività primaria, non riscontrabile in nessuna altra zona del Mar Mediterraneo.
Il Bacino corso-ligure-provenzale è infatti la regione mediterranea in cui la presenza dei Cetacei è più massiccia, sia per quanto riguarda il numero di esemplari sia come diversità di specie.

Il Santuario - Alla luce di questa abbondanza di specie di Cetacei, il 22 marzo 1993 i rappresentanti dei Ministeri dell’Ambiente di Francia e Italia e il Ministro di Stato del Principato di Monaco firmarono a Bruxelles una dichiarazione relativa all’istituzione in questa zona di un Santuario mediterraneo per i mammiferi marini; esso è delimitato ad ovest da una linea che va dalla punta Escampobariou (punta ovest della penisola di Giens) con posizione 43°01’N e 006°05’E fino a Capo Falcone, situato sulla costa occidentale della Sardegna (40°58’N e 008°12’E); ad est, una linea che va da Capo Ferro, situato sulla costa nord della Sardegna (41°09’N e 009°31’E) fino a Fosso Chiarone, situato sulla costa occidentale italiana (42°21’N e 011°31’E) (Fig. 1).
L'accordo definitivo del 25 Novembre 1999 ha finalmente sancito la nascita di questa grande area marina protetta. E nel 2001 è arrivata la ratifica dell'accordo da parte dell'Italia.

Fig. 1 – Il Santuario Internazionale dei Cetacei

I cetacei

L’anatomia - I cetacei sono mammiferi marini che, nel corso della loro evoluzione, hanno colonizzato l’ambiente acquatico subendo una serie di importanti adattamenti anatomici e fisiologici. A differenza dei mammiferi terrestri, i cetacei hanno perso il pelo che è stato sostituito da uno spesso strato di grasso sottocutaneo con funzione di coibentazione; hanno perso gli arti posteriori sviluppando una potente muscolatura nella zona anteriore alla coda; hanno perso il bacino anche se possiedono ancora un “ricordo” di questa struttura ossea ancestrale: piccole ossa vestigiali situate in mezzo alle viscere.

La fisiologia - Molte sono le modificazioni subite a livello fisiologico per consentire a questi animali di compiere apnee molto prolungate, cosa impossibile per gli altri mammiferi. Sono dotati infatti di un numero molto elevato di pigmenti respiratori – emoglobina nel sangue e mioglobina nei muscoli – che permettono di legare una notevole quantità di ossigeno maggiore; durante l’immersione possono compiere bradicardia - rallentamento del battito cardiaco – e vasocostrizione – chiusura dei vasi sanguigni che irrorano gli organi “meno” importanti per rifornire con un quantitativo maggiore di sangue ossigenato gli organi principali, cuore e cervello; hanno il volume dei polmoni molto ridotto rispetto alle dimensioni totali del corpo; possiedono infine un fitto sistema di capillari, la rete mirabilis, ben sviluppato a livello delle pinne pettorali che cattura le eventuali bolle di azoto formate durante l’apnea e le rilascia lentamente tra un’immersione e l’altra.

La classificazione - I cetacei si dividono in due sottordini: gli Odontoceti ossia i “cetacei con i denti” - dal greco odous / odontòs che significa dente - e i Misticeti, i “Cetacei con i baffi” - dal greco mystax / mystakòs ossia baffi. Questi due gruppi si differenziano, infatti, proprio per la presenza di due diverse strutture all’interno della bocca: i denti nei primi e i fanoni nei secondi. I denti sono strutturalmente molto simili a quelli degli altri mammiferi anche se qualche sostanziale differenza si osserva nelle notevoli dimensioni e nel numero che può variare da specie a specie, da un minimo di uno ad un massimo di 60 paia. I denti permettono a questi animali di cacciare attivamente le loro prede, ossia pesci, calamari e crostacei. I fanoni, invece, sono lamine cornee triangolari con un lato dotato di molte setole che permettono alle balene di filtrare dall’acqua i piccoli crostacei – il krill - di cui sono ghiotte.
Un’altra importante differenza si osserva a livello nasale: i Misticeti hanno lo sfiatatoio diviso in due aperture distinte (Foto 1), mentre gli Odontoceti possiedono un’unica narice.

Le specie del Mediterraneo – Otto sono le specie di cetacei che frequentano regolarmente il Mare nostrum. Una sola appartiene al sottordine dei Misticeti ed è la Balenottera comune; tutte le altre rappresentano famiglie diverse di Odontoceti e sono il Capodoglio, lo Zifio, il Globicefalo, il Grampo, il Tursiope, la Stenella striata e il Delfino comune.
Tutti questi animali hanno colonizzato ambienti diversi del Mar Mediterraneo; immaginando che il mare possa essere diviso in tre zone principali, l’ambiente pelagico, con profondità media superiore ai 2000 mt, l’ambiente di scarpata, tra i 1000 e i 500 mt e quello costiero, inferiore ai 500 mt, balenottera, globicefalo e stenella striata sono animali pelagici, capodoglio, zifio, e grampo di scarpata e infine, tursiope e delfino comune sono costieri.

La balenottera comune
Balaenoptera physalus (Linnaeus, 1758)

E’ l’unica specie di Misticete regolarmente avvistata in Mar Mediterraneo ed è il secondo animale più grande mai esistito al mondo: 24 metri di lunghezza e 60/70 tonnellate di peso. Viene superata soltanto dalla Balenottera azzurra (Balaenoptera musculus) che supera i 30 metri ma che non vive, però, nel nostro mare.
La colorazione del corpo della balenottera comune è uniformemente grigio ardesia ad eccezione della zona ventrale bianca e di due particolari macchie biancastre sul lato destro del muso, noti con il nome di blaze e chevron. Questi due disegni sono molto importanti perché permettono di fotoidentificare e riconoscere i singoli individui. Essi possono essere paragonati alle nostre impronte digitali, ogni esemplare di balenottera ha quindi un proprio disegno di blaze e di chevron diverso da tutti gli altri individui al mondo.

Foto 1: Balenottera comune, sfiatatoio.

Come tutti i Misticeti, anche la Balenottera comune compie delle migrazioni stagionali: dai siti riproduttivi, caratterizzati da acque temperato-calde, in inverno passano a quelli alimentari con acque più fredde, in estate. L’alimentazione di questi grossi cetacei si basa soprattutto sul krill, piccoli gamberetti planctonici, oltre che su piccoli pesci e cefalopodi. Grazie agli studi compiuti sulle feci di balenottera, è stato scoperto che la popolazione mediterranea predilige una particolare specie di crostacei Eufausiacei, la Meganyctiphanes norvegica, una specie che abbonda in Mar Ligure durante l’estate. Ciò spiega perché proprio in questo periodo dell’anno in questa zona si registri la maggior concentrazione di balenottere che, invece, nei mesi invernali si allontanano probabilmente dirigendosi verso le coste africane.
Analisi genetiche compiute sul DNA mitocondriale hanno permesso di scoprire che la popolazione di Balenottera comune del nostro mare si differenzia da quella residente in Atlantico. Lo Stretto di Gibilterra svolge quindi il ruolo di barriera naturale e ha determinato la formazione di una popolazione endemica del Mediterraneo. Ciò rappresenta un motivo in più per la conservazione di questi animali.
La maggior parte della gente crede, erroneamente, che il caratteristico soffio dei cetacei sia un getto di acqua che viene espulso attraverso lo sfiatatoio (Foto 2). In realtà se così fosse, l’animale, essendo un mammifero, avrebbe i polmoni pieni di acqua e di conseguenza annegherebbe. Ciò che ai nostri occhi può sembrare acqua, è invece vapore acqueo che si viene a formare quando il cetaceo espira dai suoi polmoni l’aria calda respirata che viene a contatto con l’aria atmosferica più fredda.

Foto 2: Balenottera comune, soffio

Il soffio che queste balenottere producono è molto alto, può arrivare fino a 6 metri di altezza ed è verticale, a differenza di quello che vedremo, possiede l’altro “grande” del Mediterraneo – il capodoglio.
Il ciclo di immersione di questi Misticeti è costituito da una serie di 5/6 brevi immersioni della durata di qualche minuto che precede una immersione più lunga che può essere anche di 15 minuti e che viene iniziata quando l’animale inarca gran parte della schiena fuori dall’acqua (azione denominata round-out) (Foto 3).

Foto 3: Balenottera comune, round out

Questa immersione permette alla balenottera di scendere alla profondità di circa 500 metri.
Sul lato dell’esemplare fotografato si può anche osservare un ecto-parassita tipico delle balenottere, un crostaceo Copepode lerneide del genere Penella, artropode di piccole dimensioni la cui femmina entra nel grasso della balena e vi si ancora grazie a tre sue appendici apicali, facendo fuoriuscire la restante parte del corpo, lungo una decina di centimetri circa.
L’organo propulsore dei cetacei è la coda; in una balenottera comune essa costituisce circa il 20/25 % della lunghezza totale dell’animale e quindi può arrivare a 5/6 metri di ampiezza. Essa, però, non viene quasi mai portata al di fuori dell’acqua prima delle immersioni più impegnative, cosa che invece accade nel Capodoglio e in altre specie di balenottere.

Foto 4: Balenottera comune, peduncolo caudale

Nella foto 4 e 5, si possono osservare due “strane” balenottere: la prima (Foto 4) passava la maggior parte del suo tempo in superficie, galleggiando con il peduncolo caudale, quella parte del corpo che si trova anteriormente alla coda; la seconda, invece, (Foto 5) si ribaltava spesso su se stessa mostrando il ventre bianco e i solchi golari, tagli tipici delle balenottere.

Foto 5: Balenottera comune, pancia e solchi golari

 

Il capodoglio
Physeter macrocephalus (Linnaeus, 1758)

Il Capodoglio è il secondo grande cetaceo del Mediterraneo: può infatti raggiungere i 18 metri di lunghezza e un peso superiore alle 50 tonnellate. Ed è proprio a causa della sua mole che molte persone credono, erroneamente, che esso appartenga allo stesso gruppo delle balene, ma, essendo dotato di grossi denti, esso risulta essere un odontocete e è di conseguenza più “simile” a un delfino piuttosto che a una balena.
I suoi denti possono essere alti fino a 25 cm e pesare mezzo chilogrammo l’uno; si trovano soltanto sulla mandibola mentre, sulla mascella superiore, si hanno dei buchi, all’interno dei quali si collocano i denti della mandibola una volta che il cetaceo chiude la sua bocca.
La colorazione del corpo è uniformemente grigio scuro ad eccezione del contorno della bocca che presenta una sfumatura biancastra. Vi sono poi moltissime rughe che si possono vedere su ogni lato dell’animale e non è raro incontrare esemplari con delle macchie bianche, probabilmente dovute a depigmentazione della pelle.
Nei secoli passati questi animali sono stati sterminati perché dal loro corpo potevano essere estratte alcune sostanze preziose: oltre al grasso, usato, ad esempio, per illuminare le città e lo spermaceti, prezioso elemento in profumeria, i balenieri prendevano anche l’ambra grigia, una struttura cerosa prodotta all’interno dell’intestino crasso di alcuni capodogli che, avendo un profumo di muschio, veniva anch’essa utilizzata in profumeria.
Il Capodoglio è un grandissimo predatore e ama cacciare calamari, dai più piccoli a quelli enormi, come il famigerato Architeuthis dux con il quale ingaggia leggendarie e affascinanti lotte negli abissi.

Foto 6: Capodoglio, testa

Una delle caratteristiche inconfondibili del capodoglio, da cui deriva proprio l’etimologia del suo nome, è la forma della sua testa, molto grossa e dalla tipica forma squadrata (Foto 6). All’interno si trova un organo particolare, lo spermaceti, costituito da tessuto spugnoso imbevuto di una sostanza lipidica composta da trigliceridi ed esteri cerosi. L’esatta funzione di questa struttura è ancora ignota, anche se sono state avanzate alcune teorie; sembra possa essere utilizzato per controllare la galleggiabilità durante le immersioni, oppure che possa disperdere i suoni prodotti dal cetaceo, o ancora che possa aiutare il sistema circolatorio assorbendo l’eccesso di azoto, prodotto durante le lunghissime apnee – che possono durare anche un paio d’ore.
Ma che cosa ha a che fare lo sperma con questo speciale organo e perché gli inglesi chiamano il capodoglio Sperm whale? Nel Settecento, quando iniziarono a spiaggiarsi le prime carcasse di capodoglio, gli inglesi videro che dalla testa di questi animali fuoriusciva una sostanza liquida biancastra che confusero per sperma.
Il ciclo di immersione del capodoglio è completamente differente da quello di una balenottera. Una volta terminata la sua immersione negli abissi il cetaceo ritorna in superficie dove vi trascorre circa 15/20 minuti, fermo, a respirare.
Già gli antichi balenieri si erano accorti dell’esistenza di una stretta relazione tra il numero di respirazioni compiute in superficie e il tempo di permanenza sott’acqua e avevano ipotizzato che ogni singolo soffio emesso rappresenta un minuto trascorso in apnea. Dopo essersi riposato e ben ossigenato, il capodoglio è pronto per ritornare in profondità, molto probabilmente con lo scopo di cacciare; ed ecco che il suo atteggiamento in superficie risulta essere più agitato fino a che non compie una sgroppata con la schiena – esegue un round-out (lo stesso fenomeno che abbiamo visto fare alle balenottere comuni) e porta fuori completamente la coda dall’acqua per darsi una fortissima spinta (Foto 7), che gli consentirà di raggiungere profondità ragguardevoli, anche fino ai 3000 metri…

Foto 7: Capodoglio, coda

A differenza delle balenottere comuni che emettono un soffio verticale e dritto, il capodoglio produce un soffio “storto”, ossia inclinato di 45° sulla sinistra (Foto 8). Ciò è dovuto al fatto che il suo sfiatatoio non si trova esattamente al centro della testa ma bensì spostato sul lato sinistro. Questa ben visibile differenza permette agli avvistatori di identificare e riconoscere un capodoglio o una balenottera anche a notevole distanza.

Foto 8: Capodoglio, soffio

La pinna dorsale non ha la classica forma falcata che si osserva nei delfini e nelle balene, ma è triangolare come si può osservare nella foto.

 

Lo zifio
Ziphius cavirostris (Cuvier, 1823)

Fino a qualche anno fa lo Zifio veniva considerato uno dei cetacei più misteriosi del Mediterraneo; pochissimo si conosceva infatti della sua ecologia e lo si riteneva un animale timido, difficile da avvicinare con le imbarcazioni. In Mar Ligure, negli ultimi anni, è stata individuata una zona, tra Imperia e Finale ligure in cui vive una popolazione residente. (Foto 9)

Foto 9: Zifio sott'acqua

Con i suoi 6/7 metri di lunghezza e 3 tonnellate di peso, lo zifio è il secondo grande odontocete mediterraneo. Non è strettamente imparentato con il capodoglio né tantomeno con i delfini, appartiene infatti a una ben distinta famiglia, gli Zifiidi, un gruppo di cetacei di media taglia. (Foto 10)

Foto 10: Zifio, salto

La colorazione del corpo può variare tra femmine e maschi: le prime possono essere grigie scure oppure brune caffelatte con qualche sfumatura più chiara, raramente bianca; i maschi, invece, sono generalmente grigio ardesia e bianchi sulla testa e sulla regione del tronco subito adiacente. Sul corpo di questi animali si osservano molto spesso delle macchie bianche, forse lasciate da ectoparassiti come la lampreda, gialle, date dalle diatomee, piccole alghe incrostanti, e delle cicatrici, probabile risultato di lotte tra maschi. (Foto 11)

Foto 11: Zifio, cicatrici e diatomee

L’unica narice che possiedono ha una forma a mezzaluna, diversa da quella degli altri cetacei; le femmine non hanno denti mentre i maschi adulti ne possiedono soltanto due disposti sulla mandibola e che fuoriescono dalla rima boccale, dando l’idea di uno strano “sogghigno”, quando l’animale chiude la bocca. In pratica assomigliano ad un vampiro con i denti, però, disposti al contrario. (Foto 12)

Foto 12: Zifio, rostro senza denti

Il rapporto madre piccolo è estremamente importante nei cetacei, anche in quelli che, come i Misticeti, non vivono in branchi, ma sono solitari.
Nella foto 13 si può osservare proprio una madre di zifio insieme al suo piccolo. A differenza di tutti gli altri mammiferi, i cetacei, non essendo dotati di labbra, non sono in grado di succhiare il latte materno dalle mammelle; ma l’evoluzione ha fatto in modo che all’interno del capezzolo si sviluppasse un particolare muscolo, in grado di contrarsi e spruzzare il latte all’esterno dove si trova la bocca aperta del cucciolo. Il latte prodotto dai cetacei è ricchissimo di grassi, basti pensare che un piccolo di balenottera può crescere fino a 100 kg al giorno grazie alle sostanze nutritive che ricava da questo alimento.

Foto 13: Zifio con piccolo

Vivendo nell’acqua, un ambiente sicuramente sfavorevole, che sottopone i cetacei a continue perdite di calore corporeo, i piccoli sono obbligati a crescere molto rapidamente per compensare queste perdite.

 

Il globicefalo
Globicephala melas (Traill, 1809)

E’ un delfinide di medie dimensioni, può infatti raggiungere i 6 metri di lunghezza e pesare quasi due tonnellate.
La colorazione del corpo è uniformemente nera, tranne che sul ventre dove si osserva una caratteristica macchia bianca a forma di ancora.
L’etimologia del nome deriva dal latino globus, sfera, e dal greco kephalé, dalla testa globosa che si riferisce appunto alla forma globosa del capo che è privo di rostro (Foto 14).

Foto 14: Globicefalo

Possiedono una pinna dorsale inconfondibile e che rappresenta un carattere di dimorfismo sessuale: nei maschi essa è infatti molto più grossa, l’apice è più arrotondato ed è abbassata verso il lato posteriore del corpo, mentre nelle femmine è più piccola e ha la classica forma falcata, tipica dei delfinidi (Foto 15). Si possono quindi riconoscere gli esemplari dei due sessi osservando soltanto la pinna.

Foto 15: Globicefalo, pinna dorsale

Sono animali estremamente sociali che vivono in gruppi compatti e che si muovono lentamente sulla superficie del mare; una volta avvistati, è molto piacevole osservarli, perché i gruppi sono in genere costituiti da molti animali (anche fino a 200) che rimangono per lungo tempo vicino alla barca.
Quando al telegiornale danno notizia di spiaggiamenti di massa, si tratta il più delle volte di questi cetacei; non si conosce ancora esattamente il motivo o i motivi che li spingono alla morte. Molte teorie sono state proposte, dalle più assurde (cause extra-terrestri…) a quelle più verosimili come malattie o parassiti che gli distruggono l’orecchio e quindi riducono o, addirittura, eliminano la possibilità di ecolocalizzare, ossia di individuare le prede; o ancora, essendo animali in grado di muoversi seguendo il magnetismo della Terra, potrebbe succedere che non riescano a percepire in tempo una anomalia magnetica terrestre.
Il globicefalo è una delle specie di delfinidi ancora oggi cacciate dall’uomo; una massiccia attività di caccia si ha alle Isole Faroe, in nord Europa, dove i pescatori si ostinano a uccidere e ad alimentarsi di questi animali che hanno ormai, come purtroppo tutti gli altri cetacei del mondo, il corpo pieno di inquinanti. Grazie a degli studi compiuti sulla popolazione umana di queste isole, si è potuto verificare che il tasso di malformazioni fetali è molto elevato e ciò è proprio spiegabile a causa dell’alimentazione basata su queste carni inquinate. Nonostante questa valida opposizione alla caccia, la tradizione locale risulta essere addirittura più forte e radicata della vita della loro stessa comunità e la caccia continua…

 

Il grampo
Grampus griseus (Cuvier, 1812)

Questo delfinide è un cetaceo di dimensioni medio-piccole e infatti può arrivare a 3 metri di lunghezza e a 400 kg di peso.
La caratteristica peculiare di questi animali è la colorazione: il colore di fondo è il grigio, dalle tonalità più chiare a quelle più scure, a cui sono sovrapposte delle cicatrici e dei graffi bianchi che aumentano con l’età (Foto 16). I cuccioli, infatti, quando nascono hanno una colorazione grigia uniforme ma, con il passare del tempo, acquisiscono sempre più graffi fino a diventare, negli esemplari più vecchi, completamente bianchi. Non si conosce il motivo per cui queste cicatrici rimangano per tutta la vita; esse sono il frutto delle interazioni sociali tra individui, fenomeno che si verifica tuttavia anche tra le altre specie di cetacei. Solo nei grampi, però, queste ferite non vengono eliminate e si mantengono per sempre.

Foto 16: Grampo sott'acqua

Il corpo del grampo è particolarmente tozzo e massiccio, dotato di un capo rotondeggiante privo di rostro e di una pinna dorsale alta e grossa come si vede chiaramente dalla Foto 17 in cui un grampo fuoriesce dall’acqua con in bocca una sua preda, comportamento questo assolutamente rarissimo.

Foto 17: Grampo e calamaro

Due tipici comportamenti che i grampi hanno in superficie sono lo spyhopping e l’headstanding. Il primo si osserva quando l’animale fuoriesce dall’acqua con la testa e “spia” l’ambiente subaereo; il secondo, invece, si ha quando il cetaceo compie quella che noi definiamo la “verticale”, ossia si immerge con la testa verso il fondo e con la coda fuori dall’acqua. Può rimanere in questa posizione per alcune decine di secondi. (Foto 18)

Foto 18: Grampo, coda

 

Il tursiope
Tursiops truncatus (Montagu, 1821)

Questo è il delfino per eccellenza, il classico delfinide che tutti conoscono, soprattutto per la sua presenza nei delfinari e in vari telefilm, il più famoso dei quali è senza dubbio Flipper (Foto 19).

Foto 19: Tursiopi

Può raggiungere i 3 metri di lunghezza e i 300 kg di peso ed è un animale dalla corporatura tozza e massiccia.
La sua colorazione è abbastanza omogenea, di tonalità grigia con il ventre biancastro.
Il muso è caratterizzato da un rostro tozzo, dalla cui forma deriva il nome, sia latino che inglese; truncatus infatti, in latino, indica questa forma tronca del muso mentre gli inglesi lo chiamano bottlenose dolphin, ossia delfino dal naso a bottiglia.
E’ un delfino che può raggiungere velocità notevoli, anche superiori ai 30/40 km/h e ama giocare nelle onde prodotte dal vento, dal movimento delle imbarcazioni – dalle piccole barche a vela alle immense petroliere – e da quelle prodotte dal frangersi sulle spiagge.
E’ estremamente famoso, purtroppo per lui, per la sua agilità negli esercizi acrobatici, essendo in grado di compiere salti fuori dall’acqua fino a tre volte la sua lunghezza. Questa sua abilità viene sfruttata nei delfinari dove il tursiope rappresenta una delle specie maggiormente utilizzate per intrattenere il pubblico. Nella foto due delfini sono stati ritratti mentre “ballano” guancia a guancia un valzer girando nella vasca, comportamento assolutamente innaturale, mai osservato in natura! (Foto 20)

Foto 20: Tursiopi in cattività


Per quando riguarda l’alimentazione, il tursiope è un animale che preferisce, di norma, cibarsi di pesci, ma può anche essere considerato un opportunista in quando è in grado di adattarsi alle condizioni ambientali del momento. Può quindi scegliere di cacciare le specie più abbondanti che trova, che possono essere anche calamari, seppie, polpi e gamberetti. Purtroppo per lui, spesso, nella sua dieta rientrano anche specie di pesci che hanno un valore commerciale ed economico per l’uomo e, più volte, si vengono a creare dei conflitti tra i pescatori e questi delfini, soprattutto perché i cetacei si infilano nelle reti da pesca e “rubano” il pesce pescato. Purtroppo, spesso, i pescatori reagiscono nel peggiore dei modi, ossia sparando ai cetacei...

 

La stenella striata e il delfino comune
Stenella coeruleoalba (Meyen, 1833) e Delphinus delphis (Linnaeus, 1758)

Le due ultime specie di cetacei del Mediterraneo sono due delfini di piccola mole che non superano i 2 metri di lunghezza e i 100 kg di peso.
La colorazione varia tra le due specie: la Stenella è infatti grigia scura sul dorso mentre sui fianchi presenta due fiammate più chiare, bianche. Dall’occhio dipartono tre linee scure di cui una raggiunge la pinna dorsale, un’altra la zona genitale e l’ultima si ferma poco dopo la pinna pettorale ed è per questo che si chiama striata (Foto 21).

Foto 21: Stenella, piccolo

Il Delfino comune, invece, ha sui fianchi due particolari disegni a forma di clessidra, di cui una parte è di color giallo senape mentre l’altra è bianca. Dalla mandibola parte poi una linea scura che raggiunge la pinna pettorale.
Sono animali gregari che vivono in gruppi di grosse dimensioni, amano avvicinarsi alla prua delle imbarcazione e giocare nuotando nelle onde prodotte – questo atteggiamento viene denominato bow-riding (Foto 22).

Foto 22: Delfino comune, gruppo

Come il tursiope, anche questi delfinidi possono raggiungere grandi velocità e compiere salti molto agili e acrobatici.
Come dice il nome, il delfino comune dovrebbe essere molto frequente ed effettivamente, in passato, questa era la specie maggiormente avvistabile in tutto il Mediterraneo.
Al giorno d’oggi, purtroppo, lo si può incontrare soltanto nei pressi di Gibilterra, nel mare di Alboran, lungo le coste africane e vicino alla Grecia. In Mar Ligure è diventato, invece, rarissimo!
Non si conosce esattamente il motivo di questa diminuzione così massiccia; c’è chi sostiene che sia dovuta a una maggior sensibilità di questi animali all’inquinamento delle acque, attitudine che li ha allontanati dalle zone più antropizzate come possono essere il mar Ligure e il Tirreno per concentrarsi in aree dove l’impatto umano è ancora limitato.


Incontri particolari

Questo è un esemplare di lampreda, della specie Petromyzon marinus, un ectoparassita della balenottera comune del Mediterraneo (Foto 23). Questo animale si attacca al corpo del cetaceo grazie ad una ventosa orale, ne incide la pelle con i dentelli presenti nella bocca e si alimenta del suo sangue. Questo esemplare è stato fotografato al largo delle coste liguri in estate; si era probabilmente staccato da una balenottera – che vedevamo in lontananza – e stava nuotando alla ricerca di un nuovo ospite. Fino a che è arrivato vicino allo scafo della nostra imbarcazione, Gemini Lab, è sfilato lungo tutto il lato e poi è sparito. Dopo circa mezzora di navigazione ci siamo fermati per fare il bagno in mezzo al mare e, immergendoci con la maschera, abbiamo notato che la lampreda aveva effettivamente trovato un nuovo ospite: lo scafo di Gemini…

Foto 23: Lampreda

Il gabbiano (Larus ridibundus) e il pesce luna (Mola mola) sono due specie molto frequenti in quasi tutti i mari del mondo. Il primo sorvola le nostre città di mare, le coste, le barche in navigazione ma spesso anche le discariche; il secondo, invece, si trova distribuito un po’ ovunque ma se ne osservano moltissimi a fine primavera inizio estate, ossia quando la sua preda preferita, la velella spirans, una piccolissima medusa non irritante, ha il suo boom demografico. In quel periodo si vede la superficie del mare completamente ricoperta da queste medusine planctoniche che possono addirittura essere scambiate per sporcizia galleggiante ma che in realtà sono dei celenterati molto affascinanti, dotati di una piccola “vela” trasparente che gli permette di muoversi con il vento e un piccolo “scafo” blu da cui si dipartono i piccoli tentacoli.
Ma ancora più affascinante è l’incontro di un gabbiano con un pesce luna che galleggia sdraiato in superficie, come nella foto 24. L’uccello si avvicina lentamente al pesce che, però, non sembra intimorito e non fugge, fino a che lo becchetta sul fianco. La prima volta che ho osservato questo fenomeno credevo, erroneamente, che il gabbiano volesse mangiarsi il pesce, invece ho scoperto che l’uccello “aiuta” il pesce a togliersi i parassiti di dosso……uno strano ma affascinante esempio di simbiosi!

Foto 24: Pesce luna con gabbiano

Un interessante e sempre gradito incontro che si può fare in Mediterraneo è quello con la tartaruga marina Caretta caretta (Foto 25). Questo rettile può raggiungere una lunghezza totale di 1.30 metri, ama nutrirsi di molluschi e crostacei ed è presente in tutti i mari caldi e temperati del pianeta.
E’ la specie di tartaruga più frequente in mar Mediterraneo dove riesce ancora a riprodursi su alcune spiagge indisturbate delle coste meridionali e orientali del bacino.
Questo esemplare è rimasto vicino alla nostra barca per molto tempo e si è fatta fotografare un po’ da tutti. Se guardate con attenzione la fotografia, potete notare una sagoma scura sotto alla tartaruga: si tratta di una giovane cernia che si nasconde sotto al rettile. Le cernie di fondale, infatti, da giovani, nuotano in superficie e si riparano sotto ad oggetti galleggianti che possono essere tronchi alla deriva ma anche, come in questo caso, animali.

Foto 25: Tartaruga marina Caretta caretta

 

Ringraziamenti
Primi fra tutti vorrei ringraziare il bibliotecario Giorgio Castiglioni e l’assessore Maria Tettamanti che mi hanno permesso di organizzare questa mostra nella Biblioteca Comunale di Moltrasio.
Simone Canese mi ha gentilmente prestato la fotografia del gruppo di delfini comuni e Diego Fasano la foto della coppia madre-cucciolo di zifio.
Un particolare ringraziamento va al mio sponsor che anche quest’anno, come già aveva fatto nel 2003 a Milano, ha voluto contribuire all’allestimento della mostra: il Dott. Massimo Moretti e la sua società di charter nautico Gensysnautica.
Infine Ignazio Cavarretta per il supporto tecnico e letterario. La maggior parte di queste foto sono state realizzate anche grazie alla sua bravura e alla sua pazienza al timone della barca Gemini lab!

Eletta Revelli, naturalista e subacquea, è nata a Milano nel 1972. Si è laureata all’Università degli Studi di Milano con una tesi sulla telemetria applicata alla Balenottera comune, svolta presso l'Istituto Tethys. Ha collaborato come esperta di cetacei con il CoNISMa (Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare) per un progetto dedicato alle interazioni tra i delfini e l’attività di pesca commerciale. Successivamente con l'ICRAM (Istituto Centrale per la Ricerca Applicata al Mare), con svariate associazioni ambientaliste e con la società SailandWhale per la quale gestisce la parte didattica e di ricerca durante le loro crociere in Mediterraneo. Collabora tuttora con l'Università degli Studi di Milano e con quella di Palermo dove sta attualmente svolgendo l’ultimo anno di un Dottorato di Ricerca in biologia marina.
Da tre anni partecipa alla crociera “Ligurian Ziphius”, interamente dedicata allo studio dello Ziphius cavirostris del mar Ligure e organizzata dall’istituto di ricerca americano Woods Hole Oceanographic Institution (WHOI).
La sua passione per il mare non si esprime soltanto attraverso la ricerca ma anche con la divulgazione: ha infatti recentemente pubblicato il volume “Balene, delfini e altri mammiferi marini” per l’Atlante degli Animali del Corriere della Sera e ha curato la parte dedicata ai mostri marini per l’Agenda del Mare 2007 dell’editore Drioli-Salghetti. In aggiunta, da 4 anni organizza in mar Ligure seminari di “navigazione esistenziale” in collaborazione con la Libera Università dell’Autobiografia (LUA).
La presente mostra, seppur con alcune foto in meno, è stata esposta anche presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Milano nella primavera del 2003.