BIBLIOTOPIA > PUBBLICAZIONI > STUDI DELLA BIBLIOTECA COMUNALE DI MOLTRASIO
STUDI DELLA BIBLIOTECA COMUNALE DI MOLTRASIO
2 (2002), pp. 24-26
GIORGIO CASTIGLIONI
UNA VICENDA DI CAMPANE A MOLTRASIO (1803-1805)
In una lettera datata 21 maggio 1803, gli amministratori comunali di Moltrasio
Francesco Caramazza, Giovanni Battista Donegano e Francesco Della Porta scrissero
alla prefettura che le campane della chiesa parrocchiale erano ormai “inservibilj”
e che il loro suono non giungeva “nelle Casine più lontane”.
Si prevedeva, per la rifusione, una spesa di 4887 lire, che poteva essere ridotta
nell’asta. Inoltre il campanile era in cattivo stato e minacciava di cadere
[1].
Un mese dopo (24 giugno 1803), gli amministratori segnalarono i problemi anche
al cancelliere distrettuale Giovan Battista Botta. Gli abitanti del luogo erano
per “la maggior parte poveri” e quindi potevano contribuire solo
offrendo gratuitamente la loro manodopera. I lavori però erano necessari,
“massime la restuorazione del Campanile per vitare il pericolo che minaccia
di cadere e quindi una gravosisima spesa nel caso sucedesse la Caduta del’
medesimo”.
Il 26 agosto, gli amministratori (i due sopra citati e Francesco Della Porta),
l’agente comunale Carlo Peverelli, il cursore Giovanni Battista Vanini,
gli estimati ed i “personalisti”, per un totale di 33 persone, si
riunirono per decidere in merito. Tutti i presenti votarono a favore dei lavori.
Il 13 settembre fu pubblicato l’avviso dell’appalto per la rifusione
delle campane. Tra le condizioni c’erano:
- la garanzia per un anno ed un giorno a partire dalla messa in opera: se si
fossero rotte prima, il fonditore avrebbe dovuto sostituirle a sue spese
- “Che le campane siano ben fatte, di perfetta bontà, allegre,
e sonore, e concertate a scala d’essere peritate di un Maestro di Capella,
o di musica”
- il lavoro doveva essere compiuto entro un mese (la consegna delle vecchie
campane al vincitore dell’appalto e il ritiro delle nuove erano previste
a Como, alla riva del lago)
- con le vecchie campane, il comune avrebbe dato la somma di 2000 lire, alla
consegna delle nuove ne avrebbe aggiunte altre 1600 ed il resto sarebbe stato
pagato dopo un anno ed un giorno
- il metallo impiegato (240 rubbi, compreso quello ricavato dalle vecchie campane)
doveva essere di buona qualità, come quello delle vecchie campane
- “che le campane possano essere sonate per le funzioni della stessa chiesa,
ed’anche fuori di dette occasioni, mà moderatamente”.
All’asta parteciparono due concorrenti, Pietro Bosisio e Giuseppe Bizzozzero,
e fu quest’ultimo a vincere l’appalto.
Il 4 ottobre fu la volta dell’appalto per la restaurazione del campanile,
che prevedeva tra l’altro:
- il lavoro doveva essere svolto “in lodevole forma” e come tale
riconosciuto da periti
- il pagamento sarebbe stato fatto in due rate, una agli inizi dei lavori e
l’altra alla fine, dopo il collaudo
- si dovevano fare “due archere per dar chiaro”
- l’esterno del campanile doveva essere “rinfrescato con calce viva,
e sabbia rabiosa”
- gli abitanti del paese avrebbero contribuito con 80 giorni di manodopera gratuita
La base d’asta era di 857 lire e 10 soldi. Giuseppe Donegano offrì
“la miglioria del sesto” (portando la somma a 714 lire, 11 soldi
e 8 denari) e, non essendoci altre offerte, si aggiudicò i lavori.
Il mese successivo fu indirizzata al prefetto una lettera anonima, datata 14
novembre, che si presentava come “la voce di un Popolo intiero che umilmente
Ricore al prelodato Perfetto del L’ario” e che attaccava duramente
le persone coinvolte nelle decisioni: “la comune di Moltrasio [era] tutora
in disordine per il cativo manegio de aministratori di un Curato e di un Cancelliere
Parziale al cativo partito”, di “due ò tre birbanti che uniti
col cancelliere e’ Parroco” si erano macchiati di “oscenità”.
Uno degli amministratori del 1803, era scritto nella lettera, era parente di
secondo grado dell’esattore ed era “un trapolatore publico”,
mentre l’agente municipale “parimenti cognato del esatore è
uomo che [h]a quatro lite pendenti con la comune”. Per farsi eleggere,
gli amministratori avevano “comperato li voti delli ignoranti”.
Secondo chi scrisse questa denuncia anonima, il danno alla campana non era stato
accidentale: “anno fato rompere de Birbante con colpi di pietra una campana[.]
li piacia spedire unna visita che della macatura rileverà la verita[.]
il fatto fu seguito la vigilia della festa delle quaranta ore di notte sonando
di festa con sassi caso che fa’ orore”. Quindi i “birbanti”
avevano affermato che “le campane sono per l’antiguità rese
inservibili e’ che il campanile dirocava, per otenere di manegiare il
picol fondo di cassa che da tanti anni si và conservando da giente proba,
e per magnare almeno un terzo”. La perizia per il campanile era stata
fatta da “un semplice muratore” e poi “lo stesso Perito fu
lesegutor del opera benche sia fato una finta di asta”. La qualità
del lavoro, poi, non era certo ritenuta soddisfacente: “fu tanto oscienna
lesecuzione del opera che sino li ragazzi parlano à vedere à ruinare
con grossa rotura un nuovo sicuro e’ bello Campanile ed ora reso in disordine”.
Ma “il magior male che crida vendetta sino al Cielo” era che si
stava per mandare alla rifusione la campana maggiore, “antica mà
di tuta perfezione una campana che si sente sino in questa città [ovvero
fino a Como] che è caso raro”.
Non finivano qui le irregolarità, o presunte tali, denunciate dalla lettera:
invece dei prescritti 40 giorni di “dilazione”, ce n’erano
stati solo dieci “sotto pretesto che era caso presante, mà il fine
fu per timore che scadesse lepoca del loro manegio per non essere scoperti”.
La manodopera non era stata ingaggiata con un’asta, ma si erano scelte
persone provenienti da fuori per 5 lire al giorno (30 soldi per i garzoni),
quando in paese si sarebbero potuti trovare buoni operai per 30 soldi al giorno.
Il legname era costoso e di scarsa qualità, mentre “le monture
delle vecchie campane sono di radica durabile per Mille e’ più
anno”.
“Per non essere noioso” proseguiva l’anonimo “termino
col desiderio che vostra Clemenza ordini unna visita prima che il Campanile
si termini di ruinare e’ prima che si rompa una si degna campana”.
Ma, prima di concludere, non risparmiava qualche frecciata finale: i voti al
convocato erano a suo giudizio “ò comprati ò de ignoranti,
ed il cancelliere quando viene à convocare non si permetta il pranzo
in case private e’ di sospetto e’ poi in Publico rigetare rilievi
de Galantomini primi estimati per favorire chi li regala pranzi”. E tutto
quanto aveva scritto, assicurava l’autore della lettera, non era che “unna
picola porzione di quanto ocorre”.
Le accuse erano non poche e di non lieve entità. Il prefetto dispose
dunque che si raccogliessero informazioni presso il console di Moltrasio Giovanni
Battista Vanini, di 64 anni, abitante da 30 in paese “ove lavoro la campagna
facendo anche il Barcajuolo, ed il console”. Vanini, interrogato in merito
il 28 gennaio 1804, confermava che uno degli amministratori il cui mandato era
scaduto con l’inizio del 1804, Francesco Caramazza, era parente di secondo
grado dell’esattore, ma negava la veridicità delle accuse mosse
nella lettera anonima.
“Non è a mia notizia che per divenire amministratori li sunnominati
abbiano in alcun modo comperati i voti”, né che la campana “sia
stata in alcun conto rotta a bella posta, ma ciò addivenne nel continuo
suonarla che si ruppe”. I lavori al campanile non erano fatti male. Anche
il nuovo concerto di campane era buono e la fusione della campana maggiore era
necessaria. Che questa si sentisse fino a Como, comunque, era pura esagerazione.
Che i lavoratori impiegati fossero forestieri, invece, era vero. Per quanto
riguardava l’acquisto di legname e ferramenta, a Vanini pareva che non
fosse stata fatta un’asta, ma non sapeva il motivo. Per quanto riguardava
i pranzi del cancelliere (peraltro, essendo anziano, Giovanni Battista Botta
si faceva sostituire dal figlio Francesco, anch’egli abilitato all’incarico),
“alle volte và a pranzare ora dall’uno, ed ora dall’altro,
giacche non essendovi che una sola osteria essendo sprovista conviene che accetta
gli inviti”, in particolare, dal parroco e da Francesco e Carlo Peverelli,
essendo “le persone che in ogni tempo hanno qualche cosa di dar da mangiare”.
Infine, Vanini assicurava che gli amministratori, l’esattore e i Botta,
padre e figlio, avevano tutti un’ottima reputazione e mai aveva sentito
lamentele sul loro conto.
La deposizione di Vanini, cui fu imposto il rispetto del segreto d’ufficio
(sotto pena di un’ammenda di 25 scudi), fece sì che la “dinoncia
anonima [...] rinvenuta nella bussola delle consegne di questa Prefettura”
fosse ritenuta inattendibile.
Questo non cancellava, però, tutti i problemi. Infatti, la spesa era
risultata il doppio di quanto la perizia aveva previsto (1600 lire invece di
800). Su istanza del cancelliere, il prefetto aveva disposto che il consiglio
comunale fosse chiamato a pronunciarsi su tale aumento.
La convocazione avvenne il 6 febbraio 1804. Formavano il consiglio i tre amministratori
comunali (Francesco Donegano, Giuseppe Donegano, Giovanni Porro), l’agente
ed il cursore comunali, altri otto estimati ed un capo di famiglia. Sei di loro
votarono a favore dell’approvazione della maggiore spesa, ma otto furono
contrari perché “la nota prodotta non è corredata di tutte
le giustificazioni”, perché prima dell’approvazione sembrava
necessario ascoltare il parere di “un professore dell’arte”
e perché alcune “spese di cibaria, e viaggi fatti in occasione
della rifusione delle Campane” si potevano, almeno in parte, risparmiare.
Dopo il collaudo delle opere e con la presentazione di adeguata documentazione
comprovante le spese, si sarebbe potuto dare l’approvazione.
Anche il prefetto non fu molto convinto da un aumento così vistoso e
il 30 giugno scrisse al cancelliere informandolo che quanto speso in più
del previsto doveva essere rimborsato di tasca propria dal cancelliere stesso
e dagli amministratori in carica nel 1803.
Questi ultimi si dichiararono sorpresi “all’intimazione fattagli
a suo carico personale di tutta la somma delle spese occorse”. A propria
discolpa, affermavano di essere stati tratti in inganno dalla “imperizia
del perito nello scandagliare giudiziosamente l’esatta stima delle spese
occorrenti” e ricordavano che c’era “tutto il Popolo tumultuante
per avere le Campane all’ordine del giorno”.
“Vero egli è,” ammettevano “che da noi sottoscritti
Amministratori non si doveva mai oltrepassar la somma di già decretata
a quest’effetto, senza prima riportarne ulteriore approvazion superiore;
ma pure l’errore, ed il fallo venne da noi commesso innocentemente, senza
frode, od ombra alcuna d’inganno avanti il Cielo, e la Terra”. Chiedevano
dunque che l’importo fosse a carico delle casse comunali, almeno fino
alla cifra stabilita da un perito.
La richiesta di una perizia di persone competenti, visto che quella cui si era
fatto riferimento era stata compiuta da “ignoranti operari che stimarono
nemeno la metà del importo che doveva asciendere tal’opera”,
era avanzata anche dai nuovi amministratori che, in una lettera del 31 luglio
alla prefettura, dichiaravano che con ciò volevano porre fine a questa
vicenda, anche per poter rispondere ai continui reclami di chi aveva fornito
opera o materiale.
Anche il figlio del cancelliere, a nome del padre, invocava una sanatoria, sostenendo
che se pure “li cessati Amministratori operarono con troppa celerità
[...] non lo fecero con un fine indiretto”.
A dicembre, la prefettura stabilì che era il caso di ricorrere al parere
di un capo falegname e di un fabbro ferraio imparziali, facendo notare che i
resoconti presentati erano “alquanto intralciati”, alcune delle
spese per vitto e viaggi messe in nota erano “inammissibili” e mancavano
le “opportune giustificazioni” per talune uscite.
Il 5 febbraio del 1805, il consiglio fu nuovamente chiamato a discutere l’affare.
I tredici presenti, fra i quali gli amministratori comunali di quell’anno,
Francesco Peverelli, Filippo Pedraglio e Giovanni Peduzzi, riconobbero che la
perizia aveva stabilito che i lavori erano stati fatti bene “e che nella
spesa non vi è quel notabile divario che si credeva” ed approvarono
la spesa.
Due settimane dopo, Francesco Botta scriveva al prefetto ricordando l’esito
della perizia e segnalando che alla fine il divario era risultato solo di 100
lire circa.
NOTE:
[1] I documenti usati per questo articolo sono conservati presso
l’ARCHIVIO DI STATO COMO, Prefettura, cart.541, fasc.1041.