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Le storie dei panda - 5
PANDA E PAMPAS
di Cái Pí
disegno di Leda Lanzatella
(2005)

“Accidenti!” esclamò padre Armand David dopo aver aperto la valigia.
Tornava proprio allora da Assisi dove si era tenuto un incontro che aveva radunato numerosi missionari provenienti da tutto il mondo. In quell’occasione, aveva potuto incontrare vecchi amici con i quali manteneva contatti epistolari, ma che non vedeva di persona da diversi anni.
Il padre osservava stupefatto il contenuto della valigia. Vi regnava il disordine più completo. Una quantità incredibile di volantini, manifesti, foto, appunti e foglietti vari si mischiava agli abiti.
“Ma questa non è la mia valigia!” osservò il nostro amico missionario riprendendosi dalla sorpresa e, quando dal marasma spuntarono alcuni attestati di prima comunione scritti a mano in una grafia per lui inconfondibile, capì quel che era accaduto: “Ho scambiato la valigia con quella di Renzo!”
Questo Renzo, proveniente dal paesotto di Lontano Vicino, era una specie di Till Ulenspiegel in tonaca le cui gesta, esilaranti quanto profetiche, ci erano state più volte raccontate da padre Armand.
“Non ti preoccupare, padre” dissi io “Andiamo in Bronzina, consegniamo a don Renzo la sua valigia e riportiamo indietro la tua. Così abbiamo anche l’occasione di conoscerlo dopo che ce ne hai parlato tanto”.
Così salimmo sul monomotore, noi tre e Sì Bù Xiàng Wu, che aveva letto delle sconfinate pampas e voleva vederle dal vivo. L’aeroplano saltellò sulla pista e si sollevò. Wu all’inizio era un po’ teso. Ma era anche molto gasato: infatti era il primo cervo del Boschetto a prendere l’aereo. Ben presto, però, la guida sicura di Grande Cái Pí lo rasserenò e si rilassò. E si divertì anche, quando Grande Cái Pí fece il giro della morte.
“Guarda giù. Ecco le tue pampas” gli annunciò Ga Dá quando le sorvolammo.
Grande Cái Pí strombazzò con il clacson come per annunciare il nostro arrivo (l’aeroplano di padre David è, credo, l’unico al mondo ad avere il clacson: lo abbiamo installato noi per avvertire gli uccelli in volo che incrociano la nostra rotta).
Siccome c’era tutto lo spazio del mondo, Grande Cái Pí pensò che Ga Dá poteva fare un po’ di pratica e gli lasciò i comandi. Ga Dá fece un buon atterraggio. Appena un po’ lungo, disse Grande Cái Pí facendogli i complimenti. Sulla nostra pista sarebbe arrivato al pelo, valutò il nostro pilota, ma per essere uno dei primi tentativi il risultato era già notevole.
Le vizcachas, che erano sparite nelle tane quando le ruote erano a pochi metri dal suolo, tornarono fuori a guardarci curiose. Le salutammo. Wu saltò a terra e si mise a correre.
Noi invece, presa la cartina e una bussola, ci incamminammo verso la missione a cercare don Renzo. Ci arrivammo nel giro di un quarto d’ora.
“Scusi, ci sa dire dov’è il parroco?” chiedemmo ad un uomo che stava sistemando il giardino della chiesa.
“Scommetto che venite da parte di Armand e che quella” indicò il bagaglio che portavamo “è la mia valigia che ho scambiato per errore con lui. Ah, come avrete già capito, perché mi sembrate tipi svegli, il parroco sono io. Piacere, Renzo”.
Ci strinse la mano e ci invitò nella casa parrocchiale per offrirci da bere. Quindi aprì la valigia.
“Speriamo non sia successo nulla a loro...” disse aprendo un doppio fondo ed estraendo un cilindro di latta. Svitò il coperchio bucherellato e versò il contenuto su un giornale. Bachi da seta.
Li guardò muoversi sulla carta e concluse: “Benissimo, sono tutti vivi”.
“E’ illegale farli arrivare qua” ammise “ma, sapete, a me piace moltissimo l’infrazione alle regole. Già da quando ero in seminario. Se tutti dicevano A, a me veniva voglia di dire B o C”.
Questo prete ci piaceva.
“Vado a ritirare un’offerta dalle suore ricche” ci disse “Volete venire con me?”
“Le suore ricche?” chiedemmo curiosi.
Cammin facendo ci raccontò che lui le chiamava così per distinguerle dalle “suore povere”, quelle che lavoravano nella missione.
“Non sono cattive le suore ricche” precisò “Anzi, ci fanno tante offerte e sono sempre molto cortesi. Però vivono un po’ fuori dal mondo…”
Le suore ricche restarono un po’ perplesse nel vedere comparire noi tre panda, ma, dopo un attimo di stupore, ci accolsero con grande cordialità e ci offrirono il tè. Si mostrarono interessate quando spiegammo loro come fare il tè di bambù. Don Renzo spiegò che eravamo degli amici di padre Armand David, missionario lazzarista in Cina. Dopo qualche convenevole, ci congedammo.
“Tu che sei il più grosso, passami di fianco dal lato della portineria” raccomandò don Renzo a Grande Cái Pí prima di arrivare al corridoio che conduceva all’uscita.
“Don Renzo!” lo bloccò la suora portinaia.
“Cosa fa con quello?” chiese indicando il prezioso tavolino di mogano che il prete temeva sotto il braccio.
“Vi aiuto a mantenere il vostro voto di povertà” rispose prontamente lui.
“Ah ah ah” rise la suora “Guarda cosa fa il nostro don Renzo pur di fare una battuta! Che simpaticone!”
“Voi, sorelle, fate tutte voto di povertà” disse don Renzo “Ma qui mi sembra di vedere piuttosto un vuoto di povertà!”
“Ah ah ah” rise ancora la suora riprendendosi il tavolino “E’ simpatico, vero, il parroco?”
Facemmo segno di sì con la testa.
“M’è andata male!” commentò don Renzo mentre ritornavamo alla chiesa.
“A noi no” dicemmo mostrando il nostro sfolgorante sorriso ed alcune opere d’arte locali lasciate in deposito presso il convento, come diceva un cartellino, da un tale signor Isaías. Chi fosse questo tizio, l’avremmo scoperto qualche ora più tardi.
Dopo il buon pranzo gentilmente offertoci da don Renzo, andammo un po’ a spasso. Mentre vagavamo senza una meta precisa, ci si affiancò un’automobile di lusso. Ne uscì un tizio che si presentò come Lawrence Isaías, proprietario della fazenda e di quasi tutte le terre per un raggio di non so quanti chilometri.
“Siete voi gli ospiti del parroco?” ci chiese e senza aspettare la nostra risposta riprese: “Potete dire a don Renzo di passare da me stasera? Avrei una piccola offerta da dargli”.
Forse, pensammo, questo tipo non era poi stronzo come sembrava (perché, quanto a sembrarlo, lo sembrava davvero tantissimo).
Tornati alla casa parrocchiale, riferimmo il messaggio al parroco.
“Avete detto Lawrence Isaías?” chiese lui.
“Sì” confermammo.
Dopo una frugale cena, accompagnammo don Renzo a villa Isaías.
Passato il giardino, una scala in pietra ci condusse all’interno della sontuosa residenza, la cui ricchezza, confrontata con la modestia della casa parrocchiale e delle case contadine che avevamo visto sino a quel momento, faceva un contrasto netto come quello che facevano le nostre simpaticissime facce (intendo dire di noi tre e di don Renzo) con le facce da culo radunate nel salone. Si trattava dei vip locali. Gli uomini indossavano il frac o divise militari con un numero di decorazioni talmente elevato da far pensare che venissero assegnate in quantità inversamente proporzionale al loro Q.I., mentre le donne vestivano costosi e ridicoli abiti da sera.
“Mi sai spiegare la scultura che Lawrence ha portato al convento?” sentimmo dire da una signora “A me sembrano solo bottiglie di acqua minerale”.
“E’ pop art” disse il suo interlocutore.
“Ah, certo” annuì lei un po’ perplessa.
Nel frattempo, essendogli stato annunciato l’arrivo del parroco, Lawrence avanzò tra gli invitati estraendo da una tasca interna della giacca una busta contenente diverse banconote.
Quando fu ad un passo da noi, dopo essersi assicurato con la coda dell’occhio che tutti stessero osservando la scena, mise la busta in mano a don Renzo e, con un sorriso smagliante, recitò ad alta voce una frase che senza dubbio si era preparato (o più probabilmente si era fatto preparare) in anticipo:
“Don Renzo, tenga questa modesta offerta: è per i suoi poveri”.
Si udì un sommesso mormorio di approvazione. Specialmente le pie dame bisbigliarono le loro lodi per il munifico gesto di beneficenza.
Il parroco, sorridendo, rivolse con un cenno del capo il saluto a tutti i presenti e, infilando la busta appena ricevuta in una tasca dell’abito di Lawrence, con fare paterno gli diede una pacca sulla spalla:
“No, la tenga lei: è per i suoi poveri. Metta in regola un operaio in più”.
Lawrence, già non molto espressivo di suo, rimase del tutto di sasso.
“Buona sera a tutti” salutò allegramente il parroco e noi facemmo ciao ciao con la zampina.
A Lawrence Isaías la simpatica trovata di don Renzo non piacque (non aveva proprio senso dell’umorismo: noi tre ci ridemmo per tutta la notte) e cominciò a pensare come vendicarsi di quel prete che, a dire il vero, gli stava sulle palle già da un pezzo.
La sua prima idea fu quella di arruolare dei finti contadini che si mischiassero a quelli veri e, con frasi apparentemente gettate lì senza pensarci, demolissero la sua reputazione.
“Ho sentito dire da uno che le cose le sa” diceva il nuovo arrivato “che il parroco di qua...”
“Don Renzo?” chiese José.
“Sì, proprio lui. Mi hanno detto che è...” si guardò attorno per accertarsi che nessuno udisse la confidenza che con speciale favore gli faceva “...comunista!”
“Nel senso buono del termine, lo è di certo: tutto quel che ha lo mette in comune con tutti” confermo José con l’aria di chi sente annunciare la scoperta dell’acqua calda e si rimise a vangare.
“Ho saputo” diceva ancora il nuovo arrivato “che don Renzo ha fatto passare dei clandestini oltre il confine con il Sonoguay”.
“Che figo!” rise sotto i baffi Lawrence (suo padre era un po’ un leccaculo e gli aveva dato lo stesso nome che il padrone della fazenda aveva dato a suo figlio).
“Ho letto su un giornale” insisteva l’infiltrato “che don Renzo è stato tra quelli che hanno sobillato la protesta del mese scorso a Malos Aires” diceva il nuovo arrivato “Lo sapevate?”
“Io no” rispose Raúl.
“Nemmeno io” disse Octavio.
“E’ proprio una persona modesta” concluse Juanita “Non mette mai in piazza i suoi meriti”.
“Lo sapete” tentava ancora “che don Renzo ha rifiutato un’offerta del señor Lawrence Isaías?”
“Ha fatto bene!” disse Pedro.
“Ma era per noi poveri contadini!” cercò di controbattere l’inviato segreto del latifondista.
“Che se li ficchi in quel posto i suoi soldi!” commentò Gustavo.
“Sììììì” gridarono tutti sollevando in aria gli attrezzi “Viva don Renzo! Abbasso Lawrence Isaías!”
Insomma, i fessi cercavano di screditare il parroco attribuendogli comportamenti che trovavano disdicevoli, ma non si rendevano conto che quello che per loro era riprovevole, per i contadini era meritorio e quindi non facevano che consolidare la già ben salda fama di don Renzo.
Non riuscendo a demolire la reputazione del vulcanico prete con questi mezzucci, Lawrence decise di passare allo scontro aperto. E armato. Legato com’era alle alte sfere militari, non gli fu difficile avere a disposizione un gruppo di militari specializzati in operazioni contro i sovversivi, termine che in quelle terre indica gli attivisti democratici e in genere chiunque non sia visto di buon occhio dai potenti e prepotenti locali.
Il brutto incontro ci capitò mentre tornavamo da un casolare piuttosto distante dalla chiesa, su una strada su cui in genere non passava nessuno. Don Renzo ci aveva proposto di fare una sorpresa ad un bimbo che abitava là: di certo un panda vivo non l’aveva mai visto e ora ne avrebbe visti addirittura tre. Ci divertimmo un sacco e sulla via del ritorno si scherzava e il missionario ci raccontò alcuni gustosi aneddoti.
Ridevamo come matti quando trovammo la strada sbarrata da una camionetta intorno alla quale Lawrence Isaías con un manipolo di militari attendeva il nostro passaggio. Il latifondista ci indicò ai soldati che avanzarono decisi verso di noi mettendo in mostra le loro armi.
“Qui si mette male” disse don Renzo.
“Non si preoccupi” lo rassicurai “Ci pensiamo noi. Anzi, ci pensa lui” e gli indicai il nostro amico filosofo.
“Certo” cominciò Ga Dá “voi pensate che la forza dei fucili risolva tutto. Ma avete mai pensato alla forza del linguaggio come intuizione?”
“Cosa dice?” chiese il generale.
“Non capisco” gli rispose il caporale.
“Ok” proseguì Ga Dá “mettetela in rapporto con l’elaborazione concettuale della filosofia. Che cosa può venire fuori?”.
“Un fucile?” provò un milite.
“Di più, di più” rispose Ga Dá.
“Una mitragliatrice?” tentò un altro.
“Di più, di più” ripeté Ga Dá.
“Un carro armato?” ipotizzò un terzo.
“Di più, di più” insisté Ga Dá.
“Un intero esercito?” chiese stupefatto il caporale.
“Ma mooolto di più” disse ancora Ga Dá.
“La bomba atomica?” domandò il generale.
Ga Dá scosse la testa e, comprendendo che da soli non ci sarebbero mai arrivati, diede loro la soluzione: “La filosofia dell’esistenza!”
“La filosofia dell’esistenza?” mormorarono smarriti gli uomini in divisa.
“Esatto” confermò con aria grave il nostro panda filosofo.
Si guardarono tra loro un po’ intimoriti.
“Voi misurate la portata dei vostri cannoni, no?” incalzò Ga Dá.
“Sì” disse uno.
“Ma avete mai misurato la portata ontologica dell’arte?” chiese il mio amico.
“Be’, si potrebbe provare...” ribatté un generale “Facciamo dei tiri di prova in un deserto...”
“Già” commentò Ga Dá “ma così facendo è sicuro di valutare adeguatamente che sarà sempre un momento, per quanto parte integrante, di un processo incompiuto?”
“E’ un rischio grosso?” chiese il caporale.
“Potrebbe esserlo” disse il generale pensoso “Sono armi che non abbiamo mai collaudato, queste!”
“Ci pensi bene, generale, prima di prendere decisioni avventate” lo ammonì Ga Dá “Qui sono in ballo orizzonti diversi che devono fondersi: ne va della storicità dell’esistenza”.
“In fondo” si lanciò Grande Cái Pí “il conflitto con la metafisica heideggeriana è ancora tutto da risolvere!”
Lasciandoli assorti nei loro dubbi, ci allontanammo rapidamente.
“Non è tutto da risolvere!” proruppe Ga Dá quando fummo ad una distanza di sicurezza “Se tu ogni tanto ti degnassi di approfondire l’ermeneutica, magari avresti già trovato almeno qualche soluzione parziale!”
Giunti alla casa parrocchiale, un contadino venne a riferirci che stavano arrivando dei militari con l’ordine di arrestare i panda sovversivi.
Si erano accorti, alla fine, che li avevamo gabbati ed erano piuttosto incazzatini.
“Conviene che prendiate il volo immediatamente” suggerì don Renzo passandoci la valigia di padre David.
“Lo credo anch’io” dissi “La situazione si fa calda e noi panda, si sa, preferiamo il freddo”.
Il carrello si staccò da terra poco prima che le jeep militari entrassero nel cortile. Con il binocolo notammo le smorfie di disappunto dei caporioni ed il ghigno di don Renzo che certamente li stava canzonando con qualche gioco di parole.
“Ho come l’impressione che ci stiamo dimenticando qualcosa...” disse Grande Cái Pí.
“Allora” feci il punto della situazione “noi tre ci siamo, la valigia di padre David c’è...”
“Tutto ok” disse Ga Dá che per sicurezza l’aveva aperta per controllare che fosse proprio la valigia giusta.
“... e le opere per il museo ci sono” aggiunsi tastando il sacco in cui le avevamo riposte.
“E se ne abbiamo dimenticata qualcuna, è un regalo per don Renzo” disse Ga Dá.
Dopo un lungo viaggio, l’aeroplano, sapientemente pilotato da Grande Cái Pí, atterrò dolcemente sulla pista vicina al Boschetto. Padre David ci venne incontro e ci ringraziò quando gli passammo la valigia e gli riportammo i saluti di don Renzo. Comparve anche un cervo di padre David e fu solo in questo momento che ci venne in mente cosa avevamo dimenticato.

Epilogo

Dal “Corriere del Panda”
Ha fatto scalpore il ritrovamento nelle pampas della Bronzina di un cervide mai osservato in quelle zone. Secondo Miguel Bonaso, docente di zoologia all’università di Malos Aires, si tratterebbe di un cervo di padre David (Elaphurus davidianus), noto in occidente anche come milù, che è il nome cinese di un altro cervo, il sika. Come sia giunto in quelle terre, però, nessuno è stato in grado di chiarirlo. L’ipotesi di un traffico internazionale di animali rari non ha trovato sin qui prove.