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Le storie dei panda - 3
ROCK THE CASBAH!
di Cái Pí
disegno di Leda Lanzatella
(2004)

“Sorpresi, eh?” urlò una sgradevole voce.
Evidentemente credeva di essere arrivato sin qui senza che ce ne fossimo accorti. Abituato a stare con scemi come lui, aveva sottovalutato l’udito e l’olfatto, nonché l’acume intellettuale, di noi panda.
“Dunque” lo informai con la noncuranza tipica di chi è conscio della propria indiscutibile superiorità “sei entrato nel Boschetto da sud-ovest, hai urtato accidentalmente il gruppo di canne con la cassetta delle lettere, poi hai camminato lungo il margine del ruscello, finendo accidentalmente con un piede in acqua in prossimità della pozza dei salamandroni, hai deviato in questa direzione strisciando a terra come un ebete...”
“... passando sopra una cacca di cervo di padre David...” precisò Ga Dá.
Lo stupidotto notò solo allora una striscia brunastra lungo i suoi abiti pacchiani.
“... ti è caduto un oggetto metallico, hai strisciato ancora un po’ urtando una radice forse con un ginocchio, ti sei alzato di colpo picchiando la testa su una canna e sei saltato in avanti gridando come un fesso: Sorpresi, eh?” conclusi.
Rimase per un attimo perplesso.
Purtroppo, a volte la superiorità intellettuale non basta.
“Ehm... e probabilmente l’oggetto metallico che ti è caduto era quella pistola” aggiunsi indicando l’arma che aveva estratto dalla tasca e che puntava verso di me.
“E ora mostratemi dove sono le statue dei buddha” intimò con l’arroganza che lo aveva sin qui contraddistinto.
“Ti sei accorto” gli domandai “che qui portiamo tutti il nome di un missionario cattolico?”
“Cervi di padre David, salamandre di padre David, noi panda, detti anche orsi di padre David” elencò Ga Dá.
“Secondo te è il posto più adatto per cercare statue di Buddha?” ripresi.
Ci guardò con l’aria di chi proprio non ci arriva. Grande Cái Pí, spazientito, sbuffò e tirò le conclusioni al suo posto: “Qui al Boschetto siamo tutti cristiani”.
Il fesso imprecò in arabo e se ne andò. Fece a ritroso il percorso che aveva seguito all’andata. Quando giunse presso la pozza dei salamandroni, udimmo un tonfo nell’acqua.
“Ma allora è proprio scemo!” sbottò Grande Cái Pí, mentre il demente imprecava e cercava di giustificare la sua goffaggine accusando il terreno di essere scivoloso.
Da quel punto sino all’uscita dal Boschetto, il ritmico rumore dei suoi pesanti scarponi susseguì monotono, sempre uguale. O quasi, perché uno dei passi, al nostro udito fino, risuonò come lievemente attutito.
“Dobbiamo fare un discorsetto ai cervi di padre David” commentò Ga Dá.
Poco dopo un altro rumore attirò la nostra attenzione. Era l’inconfondibile ronzio scoppiettante dell’aeroplano del nostro amico missionario padre Armand David. L’aereo in questione è un piccolo monomotore traballante ma affidabile (o, almeno, lo è sempre stato sinora) e facile da guidare, il mezzo ideale per muoversi in queste zone.
Era strano, però, che padre David partisse senza salutarci. Non avevamo finito di formulare questo pensiero quando nelle nostre brillanti menti irruppe il dubbio. Ci precipitammo alla chiesa. Quando arrivammo allo spiazzo che faceva da pista di decollo ed atterraggio, il missionario ci squadrò con aria interrogativa, come per dire: “Ma chi c’è sull’aereo?”
A noi di fare la figura dei fessi che si fanno soffiare sotto il naso un aeroplano non andava proprio e, soprattutto, sapevamo quanto il padre fosse affezionato a quella carretta volante. Corremmo a prendere il segnalatore di posizione del mezzo.
“Non ti preoccupare, padre Armand” assicurai “Torniamo con l’aereo”.
“In marcia!” disse Grande Cái Pí con lo sguardo sul segnalatore e il dito ad indicare la direzione da prendere. Attraversammo il Tibet e poi il Karakoram, un po’ a piedi, un po’ scroccando qualche passaggio con i mezzi più diversi. Quando in una spianata avvistammo il monomotore gli occhi ci si riempirono di lacrime di commozione e di gioia. Era lì, ancora in perfetto stato (l’imbecille, almeno, era un buon pilota). Fu certo per l’emozione che non ci accorgemmo che presso l’aereo era sopraggiunta una pattuglia di fanatici che ci venne incontro.
“Siete qui per unirvi alla jihad?” chiese uno di loro mostrando i suoi denti ignoti allo spazzolino.
“Siete dei fedeli dell’Islam, no?” domandò un altro.
“E se - lo dico solo per ipotesi, s’intende - diciamo di no?” azzardò Grande Cái Pí.
“Vi sparo!” rispose con un ghigno satanico “Morte agli infedeli!”
Per guadagnare tempo fingemmo di non sapere cosa fosse la jihad. Cominciò così un lungo e confuso sproloquio che avrebbe dovuto chiarirci l’idea della guerra santa e le sue applicazioni pratiche. Gli confessammo che non avevamo capito nulla. Cercò di spiegarcelo nuovamente, ma dopo qualche minuto si accorse che lui stesso non stava capendo assolutamente niente di quello che diceva. Ci tentarono gli altri, ma l’esito fu lo stesso.
“Vi portiamo all’accampamento, che c’è uno sharif che ve lo spiega lui” dissero infine indicandoci la direzione da prendere con la canna della pistola.
Durante il cammino, provarono una mezza dozzina di volte a riprendere il discorso sulla guerra santa, ma si arrestarono quasi subito borbottando che eppure a loro pareva di avere capito quando glielo avevano spiegato e che comunque lo sharif avrebbe fugato ogni dubbio.
Dopo un’oretta arrivammo al loro accampamento, popolato da imbecilloni non dissimili da quelli che ci avevano condotto lì. Le nostre simpaticissime facce facevano un netto contrasto con le loro facce di culo. Noi panda, si sa, siamo un po’ la quintessenza della simpatia. Ma in confronto a questi persino i lumaconi e le mignatte avrebbero avuto un certo fascino.
“Siamo studenti di teologia islamica” ci disse uno di loro.
Studenti? Quello che aveva parlato avrà avuto un quaranta cinquant’anni. Se non aveva cominciato tardi, doveva essere un bel po’ fuori corso. Ma, in effetti, non aveva un’aria molto sveglia.
“Studiate anche filosofia?” s’informò Ga Dá.
“Filo...?” chiese il fesso.
“Filosofia” ripeté Ga Dá “Non so... il processo ermeneutico...”.
“Erme...?” balbettò il suo interlocutore.
“Ermeneutico” completò Ga Dá “Processo ermeneutico. Ma anche la portata ontologica dell’arte...”
“Onto...?” lo interruppe ancora.
“Ma questo non capisce un cazzo!” disse, un po’ seccato, il nostro panda filosofo. Allargai le braccia. A dire il vero, nessuno ha mai capito niente di quello che dice Ga Dá. Però noi fingiamo in maniera abbastanza convincente. E comunque sappiamo almeno ripetere le parole intere.
“Ok” disse Ga Dá “Vediamo se riesco a fare entrare qualcosa nella tua zucca. Di spazio sembra ce ne sia un casino. Allora, prova a pensare alla forza del linguaggio come a un’intuizione. Ci sei?”
“Intu...?”
Tutti gli studenti di teologia islamica lì raccolti come in una discarica umana a cielo aperto mantenevano lo stesso sguardo bovinamente inespressivo.
“Avete presente la metafisica di Heidegger?” provò ancora.
“Meta...?”
Sui loro grugni la stessa aria ebete.
“Non avete mai pensato” continuò Ga Dá “che è una sintesi di passato e presente che ci dà la storicità dell’esistenza... così... come una fusione di orizzonti diversi...”
“Stori...?”
Grande Cái Pí mi guardò perplesso. Nessuno aveva mai resistito sino a questo punto senza dare il minimo segno di malessere. Era chiaro: con questi l’attacco psichico non poteva funzionare perché avevano il cervello già completamente in pappa.
“Ma quanto ci mettete a preparare un esame?” s’informò il nostro amico filosofo.
“Esa...?” provò a ripetere uno di quelli che avrebbero voluto darci spiegazioni sulla jihad.
“Esame!” gridò Ga Dá esasperato “Esame! Ma questo lo sa dire chiunque!”
“E-sa-me” riuscì a biascicare uno dei presunti studenti.
I suoi compagni applaudirono fragorosamente.
“Hai sentito? Abdallah ha detto una parola difficile!” disse uno dando di gomito al vicino.
“Non è una parola difficile!” protestò Ga Dá “ ‘Esame’ è una parola facilissima! Io dico parole difficili. Sentite qua: essenza, sillogismo, empirismo, acroamatico (questa non la conosce nemmeno Word!)"
“Esame delle rine!” balbettò Abdallah.
Partirono battimani ancor più vivaci. Qualcuno sparò addirittura una raffica di mitra in aria. Abdallah riceveva strette di mano e pacche sulle spalle e si pavoneggiava come se avesse vinto il Premio Nobel per letteratura.
“Ma cosa applaudite? Era facilissimo ed ha pure sbagliato! U-rine!” corresse Ga Dá sottolineando la lettera omessa.
Dopo qualche minuto di questa ingiustificata euforia, lo sharif fece segno di far silenzio. Il pecorame (anche l’odore che emettevano confermava il paragone) si quietò all’istante.
“E così” ci disse “voi volete essere istruiti sulle verità della fede?”
“Be’, sì” rispondemmo. L’alternativa, ovvero essere fucilati, ci sembrava peggiore.
Ci tediò per una ventina di minuti con un insopportabile coacervo di idiozie e poi cominciò a farci domande che sembravano provenire da un test attitudinale per la visita di leva.
“Giocate con gli aquiloni?”
“No” risposi dopo un attimo di esitazione, immaginando che questi tristoni non amassero le attività ricreative. Avevo ragione, perché lui annuì soddisfatto.
“E cosa pensate della musica?” proseguì.
“Ogni tanto facciamo un po’ di quelle cantilene lagnosissime...” risposi io.
“Che sembra che hai mangiato pesantissimo e ti è rimasto tutto sullo stomaco...” aggiunse Ga Dá.
“Che se ti scappa un rutto, sembra un virtuosismo” concluse Grande Cái Pí.
“Bene, bene” approvò lo sharif, ma mentre stava per formulare la successiva domanda, venne chiamato da un altro imbecille. Dovevano prendere una decisione importante ed era richiesta la sua consulenza. Così ci congedò, promettendoci che si sarebbe occupato di noi in seguito.
Ci fu concesso di gironzolare per l’accampamento. Fuggire non sarebbe stata un’impresa facile, visti i tiratori appostati sui cocuzzoli delle collinette, ma all’interno della valletta avevamo una certa libertà di movimento. Ci fermammo davanti a quattro statue di Buddha. Dunque da qualche parte le avevano trovate. Erano allineate come davanti ad un plotone di esecuzione.
“Non starebbero male vicino ai vasetti Ming” osservò Grande Cái Pí “Potremmo fare una specie di museo”.
L’idea non era male. Avevamo notato in una sorta di magazzino dei sacchi di tela. Senza dare nell’occhio, raggiungemmo il posto e, dopo aver svuotato il contenuto sul pavimento, li portammo via. Mentre facevo il palo, i miei due amici imboscarono le statue nei sacchi. Al loro posto ponemmo delle bottiglie vuote di acqua minerale. La pop art ci deve molto.
Nel frattempo, gli imbecilli avevano deciso di fare una spedizione.
“Be’, noi potremmo esservi utili: abbiamo un buon fiuto e un buon udito” proposi.
Naturalmente, il nostro intento era quello di tagliare la corda alla prima disattenzione degli scemi che avrebbero composto con noi la pattuglia.
“Sì, sentono tutti i rumori” confermò il cretino che era strisciato sull’escremento di cervo di padre David ed aveva rubato l’aeroplano.
Così fummo aggregati ad un corpo di spedizione composto da tre idioti, uno dei quali era Abdallah, quello che si credeva un genio perché sapeva dire “esame”. Gli altri due si chiamavano Abdellah e Abdullah.
“Andiamo a prendere le munizioni” disse Abdellah e, facendoci cenno di seguirli, si diressero verso il magazzino.
“Chi è che le ha rovesciate per terra?” gridò Abdullah appena aprì la porta.
“Qualcuno avrà avuto bisogno dei sacchi di tela nei quali erano contenute” disse Ga Dá.
“Infatti i sacchi sono spariti” confermò Abdallah.
“Questi tre sono svegli” riconobbe Abdellah.
“Andiamo a vedere se troviamo dei sacchi da qualche parte” disse Abdullah ed i tre si allontanarono dal capanno.
“Ehi” gridammo loro quando si erano allontanati di una trentina di passi “Abbiamo trovato quattro sacchi vuoti!”
Tornarono di corsa.
“Dov’erano?” chiese Abdullah.
“Qui su questi scaffali” rispondemmo.
“E come mai prima non li abbiamo visti?” chiese Abdellah.
“Forse è perché siete imbecilli e invece noi siamo intelligenti” suggerì Ga Dá.
Il loro sguardo sembrava dire: “Accidenti, dev’essere proprio così!”
I tre cominciarono a mettere le munizioni nei sacchi. Non si erano accorti, a quanto pare, che il numero delle munizioni per terra era raddoppiato.
Questo simpatico scherzo ci diede il tempo di nascondere nella jeep con cui saremmo partiti i sacchi con le statue trafugate. Si partì. Dopo una mezz’oretta ci fermammo sull’orlo di una collina.
Mentre Abdallah, Abdellah e Abdullah guardavano nei binocoli, agguantammo rapidi e silenziosi i sacchi con i buddha di pietra e li nascondemmo tra due massi facilmente riconoscibili per la loro forma di panda che si gratta l’orecchio con la zampa posteriore. Se possibile, saremmo tornati a prenderli in seguito, ma nella fuga sarebbero stati un po’ di intralcio. I tre fessi non udirono i nostri passi felpati. Dopo qualche minuto, uno sparò risuonò nell’aria e poco dopo udimmo il lontano rumore di un motore di jeep. Se ne erano accorti. Comunque, avevamo un certo vantaggio e la costruzione che avevamo avvistato, un ospedale, non era molto distante. Ci arrivammo con i polmoni che bruciavano per lo sforzo e ci catapultammo all’interno. Ci accasciammo contro un muro respirando affannosamente. Quando le voci convulse dei nostri inseguitori – dovevano essere ormai sul portone – ci raggiunsero, eravamo ancora in debito di ossigeno. Si metteva male.
“Ehi ehi ehi” risuonò all’improvviso la voce dell’uomo con la mascherina antisettica al collo che avevamo quasi travolto entrando.
“Quei cazzo di fucili qui non entrano!” disse risoluto.
Abdallah protestò, ma il medico fu irremovibile.
“Stiamo cercando degli orsi un po’ bianchi e un po’ neri” spiegarono i nostri inseguitori “Li ha visti?”
Nascosti dietro il muro, restammo con il fiato sospeso. In senso metaforico, naturalmente, perché in realtà sbuffavamo ancora come treni a vapore, anche se cercavamo di farlo nel modo più silenzioso possibile.
“Dei panda? Qui?” finse di stupirsi Gino (così si chiamava il medico).
“Sono entrati poco fa” alzò la voce Abdellah.
“Se fossero passati dei panda, li avrei notati di certo. E ora vi saluto perché ho cose più importanti da fare”.
Dopo qualche minuto, Gino, aiutato da tre infermieri, portò fuori un armadio, lo caricò su un camioncino e, messosi alla guida, si allontanò. I tre fessi, che si erano nascosti nei paraggi e tenevano d’occhio l’ospedale, pensarono che era l’occasione per fare irruzione e così fecero. Cercarono, ci fu poi raccontato, anche sotto i letti, ma non trovarono traccia alcuna di nessun panda.
Intanto il camioncino avanzava sul terreno brullo e, chiamate dalla voce di Gino, le nostre simpaticissime facce sbucarono dalle ante della credenza. Stavolta, non ci fu il contrasto che in altre occasioni accompagnava la loro comparsa.
“Può passare da quella roccia a forma di panda che si gratta l’orecchio con la zampa posteriore?” chiesi.
“Di panda che si gratta l’orecchio con la zampa posteriore?” rise lui svoltando “Non avevo mai notato che avesse quella forma. Ma, sapete, su questo paese ho le idee un po’ confuse...” concluse con un’arguta frecciatina alla stupidaggine detta da un suo fastidioso connazionale sovente sbeffeggiato sulle pagine del “Corriere del Panda”.
Recuperammo i sacchi di tela e ripartimmo in direzione del luogo dove era stato lasciato l’aeroplano di padre David. Sistemate tre delle statue nel vano bagagli, regalammo la quarta all’uomo che aveva salvato le nostre vite a rischio della sua. Come, d’altra parte, faceva con tante persone tutti i giorni. Fatto il pieno e scambiati saluti e promesse di scriverci, ci ponemmo ai comandi del monomotore che si librò in aria lasciando a terra un nuvolone di sabbia e Gino che ci salutava sventolando un fazzolettone bianco con un cerchio e tre strisce rosse che componevano, in un simpatico logo, la lettera E.
Quando il monomotore apparve nel cielo sopra il Boschetto, padre David suonò le campane a festa ed i cervi di padre David saltavano e danzavano.
Avevamo visto scorrere sotto di noi l’Indo, il Brahmaputra, il Mekong. Ma nessun corso d’acqua ci sembrò tanto bello quanto il ruscello del Boschetto. Il suo gorgoglio ci commosse, specialmente quando si trasformò in una musica in nostro onore.
I salamandroni sono degli amici.

Epilogo

Dal “Corriere del Panda”.
E’ stato ieri diffuso un filmato in cui i fanatici islamici legati a Hagoui Bin Zamel ed al mullah Jamel Riyad colpiscono con colpi di cannone quattro monticelli di bottiglie di acqua minerale. Il significato del gesto è rimasto oscuro. “Potrebbe in qualche modo legarsi al significato che l’acqua riveste nella cultura islamica, come in molte altre, oppure essere il simbolo di un attacco ai prodotti dell’Occidente, oppure ancora una sorta di rituale che vuol dimostrare come la purezza si raggiunga con la violenza” ha dichiarato Carl Gurzmann dell’università di Yale. “Ma l’ipotesi più plausibile” ha concluso “è che si siano rincoglioniti del tutto”.