BIBLIOTOPIA > PUBBLICAZIONI > LE STORIE DEI PANDA
Le storie dei panda - 2
PANDA IN BASSA
NINIA
di Cái Pí
disegno di Leda Lanzatella
(2004)
In seguito al nostro successo editoriale in Bassa Ninia, ci capitava sempre
più spesso di doverci recare là, tanto che cominciammo a pensare
che fosse il caso di affittare o acquistare un appartamento da quelle parti.
La fortuna ci arrise perché l’ordine lazzarista possedeva un terreno
nel paese di Frattino e, grazie all’intercessione di padre David, ce lo
regalò. Tanto, ci dissero, non lo usava più nessuno da anni. Su
questo, però, si ingannavano. Infatti, qualcuno lo aveva invaso servendosene
come deposito o, per meglio dire, come discarica. Con qualche appostamento,
scoprimmo che il colpevole era il proprietario di una villa confinante, un edificio
costosamente kitsch con un giardino popolato da orripilanti statue che sembravano
dichiarare con la loro espressione beota che il loro acquirente voleva fare
sfoggio di una cultura che non possedeva.
L’insipienza del finto colto era confermata dal fatto che l’unica
statua di valore, senza dubbio ereditata dai precedenti proprietari, era quasi
del tutto nascosta da un orrendo tavolino da picnic ed usata per stendervi le
tovaglie. Si trattava di un orso di sasso in posizione eretta, con lo sguardo
truce, le zampe anteriori sollevate sopra il capo, le fauci aperte che mostravano
una serie di denti aguzzi.
Avevamo, dunque, scoperto chi era l’occupante. Quando lo avvistai, richiamai
la sua attenzione e, educatamente, gli chiesi se sapeva qualcosa del materiale
deposto oltre i confini della sua proprietà. Sgarbatamente mi rispose
di farmi gli affari miei. Gli feci notare, con tutta calma, che era proprio
ciò che stavo facendo, in quanto ero uno dei nuovi proprietari del terreno.
Il buzzurro si alterò.
“Lei non sa chi sono io!” urlò.
In effetti, non lo sapevo, ma lo indovinai subito: era senza dubbio uno stronzo.
Cercando di riportare la conversazione su un tono civile, gli dissi che mi interessava
solo sapere se erano sue le cose accumulate sul nostro terreno e, in tal caso
metterci d’accordo per la loro rimozione. Siccome noi panda siamo cortesi
anche con i maleducati, offrii addirittura il nostro aiuto gratuito per portare
in altro luogo il materiale.
“Io sono consigliere comunale!” gridò ancora più forte.
“Va bene” dissi tranquillo, anche se questa arroganza cominciava
ad essere molto fastidiosa “Ma è sua quella roba?”
“Sono anche un segretario comunale!”
Di male in peggio, insomma.
Visto che la nostra disponibilità riceveva come risposta soltanto un’insopportabile
maleducazione, abbandonai la conversazione con lo scemo e, il giorno seguente,
ci recammo al municipio di Frattino. Solitamente, noi panda, con la nostra presenza,
creiamo un clima di simpatia ed allegria. Ma qui, quando entrammo, calò
il silenzio. Notai che una delle impiegate aveva rivolto due occhiate nervose
ad un foglio lasciato su una scrivania. Con un’agile mossa me ne impossessai.
Era una lettera del nostro maleducatissimo vicino. Cominciai a leggerla ad alta
voce.
“Caro sindaco, ti rubo qualche secondo del tuo prezioso tempo...”
“Leccaculo!” commentarono ad una voce Grande Cái Pí
e Ga Dá.
“...per informarti che tre grossi felini bianchi e neri così detti
panda dal nome cinese dell’animale a margine...”
“Felini??? Cinese???” fecero coro i miei due amici, sottolineando
i due strafalcioni commessi dal maleducato nel maldestro tentativo di mostrarsi
colto.
“...quando gli chiedetti di portare via delle mie robe che erano messe
in un prato che forse è di propietà di loro, si sono rifiutati
di farmelo fare...”
“Cosa???” dissero ancora all’unisono. Eravamo davvero allibiti.
“...ti consiglio come che sono consigliere di stare attento che questi
nuovi che arrivano non fanno allontanare le persone dal nostro paese facendo
delle polemiche...”
Disgustato, non volli proseguire oltre la lettura ad alta voce. Passai con una
smorfia il foglio a Ga Dá e Grande Cái Pí che finirono
la lettura scuotendo la testa con aria schifata.
L’imbarazzo delle impiegate era evidente.
“Spero che saranno presi gli opportuni provvedimenti contro questo volgarissimo
personaggio” dissi a nome di tutti.
“E’ meglio che lasciate perdere” disse una delle donne “Sapete,
è una persona importante...”
“Importante?” sbottò Grande Cái Pí “Vorrà
dire arrogante!”
Diedi una pacca sulla spalla a Grande Cái Pí per calmarlo e chiesi
tranquillo: “Mi scusi, importante per cosa?”
La donna parve sorpresa dalla mia domanda: “Be’, è un consigliere
comunale...”
“Consigliere comunale di Frattino” commentò Ga Dá
“Lo inviteranno di certo al prossimo G8...”
“E’ un segretario comunale...”
“Forse se facesse un lavoro vero non avrebbe tempo di scrivere lettere
imbecilli...” osservò Grande Cái Pí.
“E’ uno che ha cultura...”
“Cultura???” scoppiammo a ridere tutti insieme, rotolandoci per
terra e picchiando pugni sul pavimento.
“Ma se chiama i panda felini!” esclamò Ga Dá quando
si fu ripreso.
“E ha delle statue che fanno vomitare!” ricordò Grande Cái
Pí.
“E’ vero” disse un signore che stava ritirando un certificato
“Sono bruttissime. L’unica passabile, forse, è quella vicino
all’orrendo tavolino da picnic, quella un po’ pop art, fatta con
le bottiglie di acqua minerale...”
La nostra interlocutrice cercava vanamente un appiglio, ma l’unico titolo
culturale che riuscì a trovare per il maleducato fu che era sposato con
un’insegnante.
“Magari si può mettere la roba in modo che vi lasci un po’
di spazio...” propose un’impiegata.
“Che ci lasci un po’ di spazio... sul nostro terreno?” chiesi
sconcertato.
“Allora” intervenne alzando la voce una dirigente “sappiate
che possiamo farvi un foglio di via dal paese!”
Grande Cái Pí stava per replicare, ma lo bloccai: “Non vedi
che sta solo ripetendo quello che i suoi capi le hanno imposto di dire? Andiamocene”.
Uscimmo indignati (anche se ogni tanto ci veniva ancora da ridere ripensando
a quando avevano definito il nostro vicino “uno che ha cultura”)
e tornammo al terreno occupato avendo ormai deciso come risolvere la questione.
Quando avvistammo il maleducato nel suo giardino, mi recai risoluto, diciamo
pure incazzato, verso il confine tra il nostro terreno e la sua proprietà:
“E’ sua o no questa roba?”
Lui finse di non saperne nulla e cominciò ad elencare le sue conoscenze
(senza dubbio altri cafoni come lui).
“Benissimo” dissi e, girandomi verso i miei due amici, feci il segno
di assenso che avevamo concordato. Grande Cái Pí, con un sorriso
diabolico, abbassò la leva. Si udì un boato e la ratatuia si sollevò
di diversi metri dal suolo, ridotta in minuti frammenti. Il maleducato interruppe
il mantra degli amici vip e restò a bocca spalancata. Già non
sembrava molto acuto di suo, ma ora pareva proprio una statua di sterco.
La notte ci divertimmo a guardare lo scemo che, credendo di non essere visto,
faceva portar via i rottami sperando di poter recuperare qualcosa. Vanamente,
perché dopo l’esplosivo eravamo passati con le mazze chiodate a
completare il lavoro (per quanto ci fosse ormai ben poco da completare).
Quello che non portò via quella notte, lo seppellimmo. Nel suo giardino,
è ovvio. E visto che c’eravamo seppellimmo anche un paio delle
sue statue, migliorando notevolmente la paesistica.
Liberato così il nostro terreno dall’indebito ingombro, costruimmo
una confortevole casetta, senza dubbio la più elegante del luogo, davanti
alla quale si stendeva un praticello. Ci mettemmo pure una fontana, anche per
avere un alloggio adeguato quando fosse venuto con noi uno dei nostri amici
salamandroni. In loro onore, al centro ponemmo la statua di una salamandra di
padre David.
“Spero che non vengano mai” ci disse un tizio indicandola “Io
le salamandre non le posso proprio vedere!”
Gli chiedemmo che cosa gli avessero mai fatto.
“Niente. E’ un’antipatia epidermica” rispose lui “A
voi non capita di avere antipatie epidermiche?”
“No” disse Grande Cái Pí “Non siamo rincoglioniti”.
Gli facemmo inoltre notare che era un po’ scortese dirlo a noi, dal momento
che i salamandroni erano nostri amici. Nonostante ciò, questo individuo,
incontrandoci per strada o venendo apposta davanti al nostro giardino, ci ripeté
più volte che per i salamandroni lui aveva “un’antipatia
epidermica”.
Il consigliere maleducato disse ad una ragazza del luogo che, da esperto in
materia, poteva assicurarle che la statua del salamandrone era certamente un
simbolo satanico. Lo disse, in realtà, in modo più farraginoso
e aggiungendovi svariate frasi offensive nei nostri confronti. La ragazza non
riuscì a trattenersi e scoppiò a ridergli in faccia. Fu così
che il maleducato non le rivolse più la parola a causa nostra. Per ringraziarci,
la ragazza ci offrì una deliziosa torta.
Su un lato del nostro appezzamento, spianammo per bene una striscia di terra
per farne una pista di atterraggio e decollo sufficiente per il piccolo monomotore
che il padre ci prestava per questi viaggi ai quali, peraltro, talora si univa.
Certo, era un po’ stretta e corta come pista, ma non è che quella
al Boschetto sia poi tanto più grande. Per sicurezza, comunque, la costruimmo
in modo che, in caso di atterraggio lungo, non saremmo finiti sul sentiero pubblico
(abbiamo senso civico, noi panda), ma sul prato del consigliere. Chi abita a
Frattino, avrà forse notato che la statua dell’arciere nel giardino
dell’imbecille pende come la torre di Pisa.
Dietro casa, piantammo un bel boschetto di bambù. Così ci sentivamo
più a casa nostra e non dovevamo portarci le provviste ogni volta che
si veniva in Bassa Ninia. Io sono piccoletto e raramente ne mangio più
di quindici chili al giorno, Ga Dá è morigerato e, pur essendo
un po’ più grosso di me, non mangia di più, ma Grande Cái
Pí se non ne ha almeno venti chili al giorno sente i crampi allo stomaco.
Potete immaginare la nostra sorpresa quando ci fu consegnata un’ordinanza
del sindaco di Frattino nella quale si diceva che era vietato coltivare il bambù
perché poteva essere causa di pericolose allergie. A dimostrazione di
ciò, era allegato un manifesto della regione piuttosto sciupato. Il fatto
che nella parola “bambù” solo le tre lettere centrali erano
a stampa mentre la prima e l’ultima erano aggiunte a penna con una scrittura
in stampatello maiuscolo da analfabeta, senza contare l’abrasione che
seguiva la “b” stampata, ci fece nascere qualche sospetto. Padre
David, valente botanico, capì subito che il documento prima di essere
contraffatto si riferiva all’ambrosia e non al bambù.
Qualcuno dunque stava barando. E non era difficile indovinare chi.
Ci recammo nuovamente negli uffici comunali, ma anche stavolta non riuscimmo
a venire a capo di nulla. Chiedemmo un appuntamento con il sindaco e, dopo vari
tentativi di sviare la conversazione, ci fu assegnata una data.
Ci presentammo puntuali e ci avvicinammo alla porta. Da quel che si sentiva
dire dall’interno, sembrava che stessero facendo le prove per recitare
una versione libera e molto scadente di un’opera di Vladimir Majakovskij.
“Se ha fatto errori sul lavoro, possiamo fare un bel po’ di storie”
diceva compiaciuta una sgradevole voce che scoprimmo poi appartenere alla segretaria
comunale.
“Boh! Io del lavoro non capisco niente, però mi sta antipatica
epidermicamente! Secondo me se gli complichiamo un po’ la vita, alla fine
la capisce e se ne va” diceva una voce, altrettanto sgradevole, che già
conoscevamo. Scoprimmo così che il tizio che amava dirci che detestava
i nostri amici salamandroni era il sindaco di Frattino.
Bussammo. Dopo un fruscio di carte e sbattere di cassetti come se si stessero
imboscando dei documenti compromettenti, sentimmo un “avanti” e
le nostre simpaticissime facce, in netto contrasto con le loro facce di culo,
fecero capolino nella stanza.
Protestammo per il vergognoso comportamento del consigliere e per le minacce
che la dirigente ci aveva inoltrato.
“Mi sembra una cosa normale” disse il sindaco.
“Normale?” replicai attonito “Le minacce sono un reato!”
“La legge ci dà il potere di fare i fogli di via” continuò
lui per nulla turbato.
“E che motivazione dareste per il provvedimento?” intervenne Ga
Dá.
“Alla motivazione ci pensiamo dopo” fu l’inquietante risposta
della segretaria comunale “Tanto, anche se andate dai carabinieri, non
vi ascolta nessuno”.
“Anche se fosse vero, non mi sembra che l’impunità sia qualcosa
di cui vantarsi” commentai amareggiato “Tanto più per un’amministrazione
pubblica...”
Essendosi forse resi conto di averle sparate un po’ troppo grosse o semplicemente
avendo notato che minacce e smargiassate non ci colpivano più di tanto,
i due abbandonarono la loro aggressività e cercarono di condirci su parlando
di tuel, peg e altre cazzate in sigla o meno, ma non sapevano che potevamo contrattaccare.
“Ga Dá, vai con il processo ermeneutico!” dissi.
Ga Dá sogghignò ed attaccò: “Prima lasciami dire
due parole sulla filosofia dell’esistenza, perché altrimenti è
difficile capire il processo ermeneutico”.
In realtà non è difficile: è impossibile, con o senza filosofia
dell’esistenza. Ma lo lasciai continuare, pregustando il nostro successo.
“I punti chiave” disse Ga Dá “sono: a) la forza del
linguaggio come intuizione, b) l’elaborazione concettuale della filosofia...”
“Be’, ci sono anche le posizioni apicali” disse la segretaria
comunale.
“No” negò risolutamente Ga Dá “Le posizioni
apicali non c’entrano. Piuttosto, la portata ontologica dell’arte
è parte integrante di un processo, però incompiuto”.
“Oh, be’ ” disse il sindaco “basta poi retrodatare la
delibera quando è finito!”
“La determina” lo corresse la segretaria “Meglio una determina
del responsabile del servizio, così se salta fuori che qualcosa non è
legale, finisce lui nei casini perché la firma è sua”.
“Giusto, giusto” approvò il sindaco.
“Ma è una sintesi di passato e presente che ci dà la storicità
dell’esistenza” riprese Ga Dá ignorando questi insulsi interventi
“come una fusione di orizzonti diversi”.
Un bel colpo! La segretaria annaspava, visibilmente in difficoltà, ma
il sindaco si lanciò in suo aiuto, urlando ripetutamente: “Portiamo
il privato nel pubblico!”
Ga Dá provò ad interrompere l’invasato: “Ma la vogliamo
o no approfondire l’ermeneutica?”
“Possiamo sempre darla in appalto!” disse la segretaria, che si
era ripigliata.
La parola “appalto” scosse il sindaco dalla sua cantilena. “Sììììì”
gridò alzando le braccia al cielo come un tifoso la cui squadra del cuore
avesse segnato all’ultimo minuto facendogli fare al contempo tredici al
totocalcio “La diamo in appalto al mio genero!”
“Ora facciamo fare la determina al responsabile del servizio ed è
tutto risolto” disse la segretaria a Ga Dá con aria di sfida, mentre
il sindaco cantava come fosse allo stadio “Ce-men-to! Ce-men-to! Ce-men-to!”
“L’ermeneutica non si fa con il cemento, cazzone!” cercò
di fermarlo Ga Dá, ma il sindaco non lo sentì neppure e continuò
il suo inno: “Ce-men-to! Ce-men-to! Ce-men-to!”
“Lei dimentica” intervenne la segretaria “l’autonomia
dei comuni. Non c’è più nemmeno l’Oreco: se vogliamo
farla in cemento, la facciamo in cemento!”
Sentendo la sua parola preferita, il sindaco si esaltò ancor più:
“Ce-men-to! Ce-men-to! Ce-men-to! Anche lei, dottoressa: Ce-men-to! Ce-men-to!
Ce-men-to!”
La segretaria comunale, abituata a fare le più meschine figure pur di
compiacere il sindaco, cominciò lei pure: “Ce-men-to! Ce-men-to!
Ce-men-to!”
“Cazzi vostri” disse Ga Dá sprezzante “vi terrete lì
irrisolto il conflitto tra la metafisica tradizionale e il tentativo di Heidegger
di superarla”.
“Una bella bustarella a ‘sto Andeghe e siamo a posto!” gli
replicò esaltata la segretaria “Ce-men-to!”
“Cementiamo anche Andeghe!” gridò il sindaco “Ce-men-to!
Ce-men-to! Ce-men-to!”
La danza tribale che accompagnava la morbosa esaltazione di questo materiale
a dire il vero un po’ repellente (ma vogliamo mettere con il bambù?)
ci rendeva sempre più consci della nostra superiorità intellettuale,
ma anche dell’impossibilità di misurarci con i nostri avversari
su un terreno ove la logica avesse un qualunque valore.
“Fuori i panda” disse Grande Cái Pí staccando coi
denti la linguetta di una bomba a mano. A mali estremi, estremi rimedi.
EPILOGO
Dal “Corriere del Panda”.
Singapore. Un turista, dopo essere passato davanti ad una ragazza che lo precedeva
in fila ed essere stato guardato male da tutti i presenti, ha pensato di vendicarsi
insultando l’impiegato della dogana e gridando: “Lei non sa chi
sono io!” Sono intervenuti tre poliziotti ed egli li ha apostrofati dicendo
loro: “Io sono consigliere comunale di Frattino!” Mentre due dei
poliziotti gli assestavano cinquanta colpi di bacchetta sul fondoschiena, il
terzo, grazie al collegamento internet di un computer della dogana, scopriva
che Frattino è un paesino della Bassa Ninia di nemmeno tremila abitanti
e tutti i presenti andavano a ridere in faccia al turista bacchettato.
“Noi abbiamo sempre denunciato questi usi barbari in uno stato che poi
si definisce tra i più avanzati al mondo” ha commentato Dietrich
Holzer di Amnesty International “Ma in questo caso hanno fatto bene!