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MAH, n.54, dicembre 2018, pp.1-4
LIBRI
Pellegrino Conte, Frammenti
di chimica : come smascherare falsi miti e leggende, Roma : C1V, 2018
La chimica può smascherare, come dice il sottotitolo,
alcuni “falsi miti e leggende”. Lo stesso sostantivo “chimica” e l'aggettivo
“chimico” sono legati a un “falso mito” che attribuisce loro un'accezione negativa
in contrapposizione a ciò che è “naturale” in base alla “convinzione
che tutto ciò che si trova in natura e non è ottenuto mediante
attività antropica abbia una valenza positiva sulla nostra salute; tutto
quanto è ottenuto mediante le attività antropiche ha risvolti
negativi” (pp.27-28). Al di là dell'uso improprio del termine “chimico”
come contrario di “naturale” (citando il vocabolario Treccani, l'autore ricorda
che la chimica si occupa “delle sostanze sia naturali sia artificiali” - p.29),
l'idea che ciò che si trova in natura sia di per sé buono e che
un intervento “chimico” sia di per sé deleterio è ovviamente senza
fondamento. Conte porta l'esempio della potabilizzazione dell'acqua con il cloro.
L'acqua, osserva l'autore, “nella logica di chi è chemiofobo [...] è
buona per definizione”, mentre un'aggiunta di cloro, una sostanza che è
stata pure usata come arma chimica, in tale ottica apparirebbe “cattiva”. In
realtà l'acqua può essere “vettore di molte patologie tra cui
il colera” e l'intervento “chimico” effettuato immettendo il cloro o un suo
derivato dà sicurezza al consumo dell'acqua che ci arriva in casa (pp.35-38).
Un capitolo del libro è dedicato a miti e bufale sull'acqua (pp.49-82).
L'autore fa l'esempio di un'acqua pubblicizzata come salutare in quanto alcalina.
Tale affermazione non ha però senso. “Il sangue” spiega Conte “è
un sistema tampone” per quanto riguarda il suo pH: l'organismo lo mantiene entro
determinati valori. Bere un'acqua più alcalina, dunque, non farà
diventare più alcalino il sangue e, d'altra parte, è bene che
sia così: se diventasse più acido, sarebbe un problema, ma altrettanto
sarebbe un problema se diventasse più alcalino. L'acidosi e l'alcalosi
sono infatti “serie patologie che possono portare anche alla morte” (pp.64-65).
L'idea stessa di giudicare buoni o meno gli alimenti in base al fatto che siano
alcalini o acidi è una bufala (p.58).
C'è anche chi propone acque “ricche di ossigeno” (pp.72-81). L'autore
fa notare che l'eventuale presenza di una maggiore quantità di ossigeno
disperso nel liquido non avrebbe alcun effetto sull'organismo. “Le acque ricche
di ossigeno” avverte Conte “sono solo una trovata commerciale che aiuta a vendere
a costi elevati un prodotto che non è né migliore né peggiore
della molto meno costosa acqua del rubinetto” (p.81).
A proposito di acqua del rubinetto, l'autore invita anche a diffidare di “marchingegni
destinati a purificare l'acqua che è già potabile di suo e non
abbisogna di alcun trattamento” (p.81). Peraltro l'acqua del rubinetto, ricorda
Conte, vale quanto quella in bottiglia e, dal punto di vista sanitario, è
controllata quanto e anche più di quella in bottiglia (p.82).
Il “residuo fisso” è il contenuto di sali minerali nell'acqua. La presenza
di questo residuo non deve essere considerata qualcosa di negativo. Al contrario,
senza la presenza di questi sali minerali, l'acqua sarebbe nociva per chi la
bevesse perché provocherebbe la lisi cellulare. L'affermazione “che più
alto è il residuo fisso, più elevata è la possibilità
di contrarre calcoli renali” è priva di fondamento (pp.65-70).
Sentire parlare di presenza di arsenico nell'acqua destinata a essere bevuta
può far spaventare: l'arsenico non è forse noto come veleno? La
tossicità è però legata alla quantità. L'Organizzazione
mondiale della sanità ha indicato come limite 0,01 mg di arsenico per
litro d'acqua, ritenendo dunque sicura l'acqua con un contenuto minore. Conte
fa notare anche che la presenza di tracce di arsenico non è necessariamente
legata a un inquinamento prodotto da attività umane. Può infatti
derivare da “normali processi idrogeologici” in zone dove “l'acqua interagisce
con sistemi contenenti arsenico” (pp.70-72).
Il capitolo successivo è dedicato all'omeopatia (pp.83-152). Le revisioni
sistematiche più accreditate hanno mostrato che si tratta di una pratica
che non ha alcuna efficacia (pp.123-134). Ciò non sorprende, dato che
i principi dell'omeopatia sono in contrasto con solide conoscenze scientifiche.
Conte prende in esame alcune delle presunte prove portate dai sostenitori dell'omeopatia,
come gli esperimenti di Jacques Benveniste (pp.101-103) e di Luc Montagnier
(pp.103-109), dei quali mostra l'inconsistenza, e la tipica risposta “su di
me funziona”, una valutazione inaffidabile, dato che i disturbi passano anche
da soli, può esserci una risposta al placebo e i bias possono portare
a vedere effetti che in realtà non esistono (pp.138-143).
Nelle ultime pagine del capitolo (pp.145-152), Conte si sofferma su una serie
di studi conosciuti sotto la sigla EPI3 che sono stati ampiamente pubblicizzati
dai sostenitori dall'omeopatia secondo i quali i risultati di questi studi ne
proverebbero l'efficacia. Come mostra la precisa analisi di Conte, i fatti sono
in realtà ben diversi. Gli studi EPI3 sostengono di non aver trovato
differenze rilevanti tra chi ha fatto uso di prodotti omeopatici, chi ha assunto
farmaci veri e chi ha fatto ricorso a entrambi e da ciò arrivano alla
conclusione che i prodotti omeopatici hanno dunque efficacia. Il fatto che si
tratti di “dati […] raccolti mediante interviste telefoniche” (p.151), invece
che accertati con esami clinici, dovrebbe suggerire una certa cautela. Conte
fa notare l'assenza di un gruppo di controllo. Dire che un prodotto omeopatico
ha avuto la medesima efficacia di un farmaco, ammettendo pure che si possa ritenere
attendibile il risultato, non implica necessariamente che il rimedio omeopatico
sia efficace: potrebbe anche significare semplicemente che per quel disturbo
il farmaco assegnato era inefficace (pp.150-151).
Il capitolo “La chimica della dolcezza” (pp.153-214) è dedicato agli
zuccheri. Una bufala alimentare piuttosto diffusa vorrebbe far credere che lo
zucchero raffinato sia dannoso. In realtà, spiega Conte, il processo
di raffinazione non rendo meno salubre lo zucchero. Per la salute lo zucchero
raffinato e quello grezzo sono equivalenti (pp.179-183).
Nel 2016 si diffuse la voce che ai seggi elettorali venivano date matite che
non erano indelebili (pp.215-225). Il cantante Piero Pelù mostrò
quella che riteneva essere una prova: il segno della matita veniva cancellato
dalla gomma (p.215). Un grossolano errore o addirittura un voluto espediente
per permettere di alterare i voti sulle schede? Oppure chi segnalava il presunto
problema aveva preso un abbaglio? Conte esamina la questione facendo parlare
la chimica. Nelle matite copiative usate ai seggi “la miscela grafite/argilla
[…] viene arricchita con talco, gomma arabica e coloranti organici solubili”
(p.222). “L'addizione di talco e gomma arabica” spiega l'autore “ha la funzione
di rendere il segno lasciato dalle matite copiative rimovibile solo per abrasione”,
mentre il colorante “lascia una macchia informe quando si tenta di rimuovere
dal foglio di carta il tratto fatto con la matita copiativa” (p.222). Dunque,
si potrebbe cancellare il segno della grafite, ma l'alterazione sarebbe comunque
rivelata dall'abrasione e dall'alone del colorante aggiunto e in effetti, segnala
Conte, nella foto di Piero Pelù si possono notare l'una e l'altro (pp.222-223).
Inoltre il cantante ha fatto la sua prova di cancellazione su un foglio di carta
normale, ma le schede elettorali sono realizzate con una carta copiativa sulla
quale un'azione come quella fatta da Pelù lascerebbe traccia (pp.223-224).
I sostenitori di tesi strampalate spesso se la prendono con la “scienza ufficiale”
che, a loro dire, sarebbe ostile a nuove idee. In realtà la scienza continua
a proporre novità purché portino prove attendibili a loro favore.
La stessa locuzione “scienza ufficiale”, peraltro, non ha senso. Come scrive
Conte: “Non esiste alcuna “scienza ufficiale”. […] esiste un solo tipo di scienza
ed è quella che segue delle regole ben precise – ovvero le regole del
metodo scientifico – al di fuori delle quali non esiste “scienza”, ma solo pseudo-scienza”
(pp.14-15).
Roberto Burioni, Balle
mortali : meglio vivere con la scienza che morire coi ciarlatani, Milano
: Rizzoli, 2018
Dare credito ad affermazioni in contrasto con i dati della scienza,
quando si tratta di salute, può avere conseguenze gravi, anche mortali,
come mostrano, purtroppo, i casi raccolti in questo libro.
I primi due capitoli (pp.13-46) si occupano delle idee di coloro che “negano
l'esistenza dell'AIDS o quanto meno il fatto che questa malattia sia causata
dall'infezione da parte dell'HIV” (p.36).
I due successivi capitoli riguardano presunte terapie contro i tumori che, pur
mancando di prove di efficacia a loro favore, diventarono famose in Italia,
il siero Bonifacio (pp.47-60) e il metodo Di Bella (pp.63-77).
Liborio Bonifacio, un veterinario, aveva creato il suo rimedio a partire da
feci e urina di capra (p.47), basandosi sull'idea (peraltro erronea) che le
capre non si ammalano mai di cancro (p.49). Le affermazioni di Bonifacio erano
palesemente inconsistenti, ma si fecero comunque delle prove sui ratti e il
metodo fu proposto anche a pazienti inoperabili: non si ebbe nessun risultato
positivo (p.55). Nel 1969 il ministro della sanità nominò una
commissione per valutare il siero: l'esito fu una stroncatura (p.56). Burioni
ricorda anche la TLP (Tumor liberated protein) di Giulio Tarro, che Bonifacio
sospettava fosse in realtà il suo siero (pp.57-58), e l'IMB (immunomodulante
biologico) di Giuseppe Zora e Anna Tarantino, “una variante del siero Bonifacio”
di cui è stato “ceduto il brevetto a un'azienda farmaceutica di Berna
che lo produce e lo vende come farmaco omeopatico” (pp.58-59).
Il medico Luigi Di Bella disse di aver trovato una terapia che garantiva ottimi
risultati nel trattamento dei tumori. Pur se mancavano prove della sua efficacia,
il metodo Di Bella ottenne grande notorietà e l'appoggio di molti esponenti
politici (p.69). Di Bella diceva di avere 10.000 cartelle mediche a sostegno
delle sue affermazioni. Quando si andò a verificare, però, si
scoprì che le cartelle erano poco più di 3000 e in gran parte
risultavano inutilizzabili per una valutazione perché mancava la diagnosi
o l'indicazione della terapia o per altri motivi. Alla fine, per la valutazione
dei risultati, restarono solo 248 cartelle e “i risultati sono sconfortanti
[…] chi aveva seguito il suo metodo era vissuto di meno, e verosimilmente peggio”
(pp.72-73). Nel 1998 partì ugualmente una sperimentazione clinica con
1155 pazienti, ma si concluse dopo un anno e qualche mese con un esito disastroso:
“il 97,5% dei partecipanti si è ritirato dallo studio, quasi tutti per
la morte o per la progressione della malattia” (p.73). Di fronte all'insuccesso
del suo metodo, Di Bella tentò di attribuirne la colpa alle modalità
con cui era stata attuata la sperimentazione, ma gli si fece notare che aveva
firmato ogni foglio del protocollo (p.74).
L'autore ricorda la storia di Clara, una ragazza diabetica morta perché
i genitori avevano sospeso la somministrazione di insulina su consiglio di una
naturopata. Burioni sottolinea che nella tragica vicenda compaiono tre medici.
Il primo è un omeopata. In una sua pubblicità si presentava come
esperto anche in “bioelettronica, orgonoterapia, radionica, segmentografia,
cancerometria di Vernes” e questo elenco gli era valso un richiamo dall'Ordine
dei medici. Clara ha avuto un collasso, ma il medico lo ritiene “un semplice
disagio psicosomatico per il quale sarà sufficiente una cura omeopatica”.
Ovviamente tale presunta cura non fa nulla e la situazione peggiora. Quando
la ragazza ha delle forti perdite di sangue dal naso, il medico, “finalmente,
prescrive alcune analisi che Clara va a eseguire all'ospedale Meyer di Firenze,
dove i medici arrivano immediatamente alla diagnosi: diabete giovanile”. La
somministrazione di insulina fa finalmente stare bene la ragazza. Il padre,
però, si rivolge in seguito a un altro medico, pure lui omeopata, che
suggerisce di rivolgersi a una naturopata (“qualunque cosa questa parola voglia
dire”, chiosa Burioni) di cui gli ha parlato un altro medico. Purtroppo i genitori
danno retta a questo assurdo consiglio. La curatrice, una donna americana, invita
a lasciar perdere l'insulina e a prendere delle vitamine. La ragazza sta male,
ma la naturopata dice che è solo un segno che “il corpo sta espellendo
i farmaci e le tossine accumulate in tutti questi anni”. Clara entra in coma
diabetica, ma persino in tale situazione la “curatrice” americana sconsiglia
l'insulina e la ragazza muore. I genitori vengono condannati per omicidio colposo.
La naturopata muore mentre è agli arresti domiciliari per la perforazione
di un'ulcera gastrica che voleva curare con vitamine e sali minerali invece
che con i farmaci. E i tre medici? Uno, riferisce l'autore, è morto nel
2015, un altro è responsabile medico di una scuola di arteterapia antroposofica
e il terzo, quello che indicò la naturopata al collega che poi la fece
conoscere ai genitori di Clara, da diversi anni tiene un master all'Università
degli studi di Milano Bicocca. “Quando lo sono venuto a sapere”, scrive Burioni,
“sono sobbalzato sulla sedia” (pp.109-117).
Francesco, un bambino di sette anni, prende un'otite, malattia frequente a quell'età.
Scrive Burioni: “Spesso tutto passa con il riposo e l'assunzione di un antinfiammatorio;
nelle otiti più gravi, quando si stabilisce un'infezione, sono necessari
gli antibiotici, che nella grandissima parte dei casi guariscono rapidamente
il piccolo”. Purtroppo a decidere la cura per il bambino è un medico
che, invece degli antibiotici, prescrive dei preparati omeopatici. Le condizioni
di Francesco peggiorano, ma per l'omeopata è la reazione dell'organismo
“per espellere l'infezione”. L'infezione batterica, invece, non contrastata
dagli antibiotici, si diffonde e raggiunge il cervello. Il bambino entra in
coma. La madre chiama il 118 e l'ambulanza lo porta in ospedale, ma è
troppo tardi (pp.119-126).
Negli altri capitoli si parla della Nuova medicina germanica (pp.79-91), del
metodo Stamina (pp.93-103), dei rischi del consumo di latte crudo (pp.127-138),
dell'antivaccinisimo (pp.139-146).
Burioni ricorda il dovere delle autorità pubbliche di tutelare la salute
dei cittadini proteggendola da pratiche senza fondamento che possono arrivare
anche a mettere in pericolo la vita delle persone. “Lo Stato” scrive l'autore
“non può oscillare tra scienza e stregoneria” (p.155). Segnala anche
il ruolo dei mezzi di comunicazione che non dovrebbero dare appoggio ad affermazioni
senza fondamento. “Se si parla di malattie e possibili terapie,” scrive Burioni,
“gli esperti devono essere veri esperti e il rigore giornalistico deve essere
massimo, visti la delicatezza dell'argomento e l'impatto che affermazioni sconsiderate
e false possono avere sulle persone malate” (pp.157-158). L'autore sottolinea
anche le responsabilità della sua professione. Il medico che danneggia
i pazienti con presunte cure senza prove di efficacia “deve essere messo alla
porta, e radiato senza pietà” (pp.158-159).