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MAH, n.53, settembre 2018, pp.1-4
LIBRI
Paola Panciroli,
200 anni di omeopatia : storia di un equivoco?, Roma : C'era una volta,
2017
I primi tre capitoli del libro sono un valido contributo alla
storia dell'omeopatia nell'Italia dell'Ottocento, tra presunti successi e concrete
smentite. L'autrice ricorda le opere di alcuni medici che fecero notare l'inefficacia
di tale pratica, come Pasquale Panvini, autore di un'indagine scettica sulla
“medicina omiopatica” (pp.51-54), Giovanni Rajberti (pp.58-63) e Giuseppe Ferrario
(pp.65-69). Ferrario, medico e “uno dei pionieri in Italia dell'applicazione
della statistica all'ambito medico-sanitario” (p.65), sosteneva che, prima di
proporre una nuova terapia, ci vorrebbero dati che ne mostrino un'efficacia
almeno pari alle terapie in uso, “onde non vengano segretamente ingannati i
cittadini, né abbiano i buoni troppo tardi a pentirsi della loro arrischiata
fidanza”. Come nota Panciroli, “si tratta di una riflessione più che
mai attuale” (p.67). «L'omeopatia» scriveva il medico «è
tra noi giudicata da' suoi proseliti sulle apparenze di soli pochi fatti individuali
privati, non generali sulle masse degli infermi, né dimostrati genuini
coll'appoggio di tavole statistiche» (p.68). Ferrario riconosceva anche
uno dei motivi per cui l'omeopatia poteva apparire efficace: nelle pratiche
dei suoi tempi si faceva largo ricorso ai salassi con il risultato di causare
danni ai pazienti. L'omeopatia, non avendo alcun effetto, almeno non produceva
danni (p.68).
Già nell'Ottocento erano conosciuti i trucchi messi in atto dagli omeopati.
Si notava il loro “tentativo di nascondere il numero effettivo dei casi negativi,
valorizzando e pubblicizzando esclusivamente quelli positivi” e come “alcuni
insuccessi sono stati fatti passare, addirittura, per guarigioni” (p.128).
L'Associazione medica italiana, “prima associazione di categoria di respiro
nazionale”, non accettava tra i suoi iscritti “gli Omeopatici ed i Magnetizzatori
di mestiere” (p.142 – il testo che contiene tale posizione è del 1862).
Nel 1877 il Consiglio superiore della pubblica istruzione si dichiarò
contrario a introdurre un insegnamento di omeopatia all'università di
Roma affermando che “l'omeopatia, essendo quasi la negazione di tutte le scienze
le scienze positive, […] non deve avere collocamento nelle discipline di istruzione
universitaria” (pp.152-153).
Tra coloro che, invece, si schierarono a favore dell'omeopatia ci fu Cesare
Lombroso (pp.154-157, 166-170). Nella rivista “Archivio di psichiatria, scienze
penali ed antropologia criminale”, da lui diretta, Lombroso inserì dal
1896 una rubrica dedicata all'omeopatia e, fa notare puntualmente l'autrice,
una sullo spiritismo (p.168).
Nel quarto capitolo (l'ultimo) del libro si passa al Novecento e l'attenzione
è rivolta particolarmente alla normativa italiana in materia di omeopatia
e alla posizione dei medici nei confronti di tale pratica. Panciroli individua
bene i punti chiave della questione.
Già in un comunicato del ministero della sanità del 1989 si chiedeva
che i prodotti omeopatici avessero una diluizione tale da garantire che fossero
innocui e si proibiva di mettere indicazioni terapeutiche (pp.188-189). Negli
anni seguenti “anche nel nostro paese si inizia a parlare di medicinali omeopatici,
con tutte le contraddizioni che questo riconoscimento comporta” (p.189). Venne
introdotta la possibilità di una registrazione semplificata che non richiedeva
prove di efficacia (il che è in ovvio contrasto con la definizione di
“medicinali”) per i prodotti omeopatici con uso orale o esterno e con la clausola
delle diluizioni tali da garantire l'innocuità. Per i prodotti così
registrati veniva riproposto il divieto di presentare indicazioni terapeutiche
(pp.189-190).
I produttori di rimedi omeopatici hanno avanzato lamentele per il fatto che
la legislazione non consente loro di mettere indicazioni terapeutiche. Come
giustamente nota l'autrice, tale divieto è in effetti “in contraddizione
rispetto al riconoscimento legislativo dei prodotti omeopatici come medicinali”,
ma è del tutto “coerente con la mancanza di prove di efficacia terapeutica”
(p.191). L'errore, dunque, non è, come affermano i sostenitori dell'omeopatia,
che prodotti riconosciuti come medicinali non possano presentare indicazioni
terapeutiche sulle confezioni, bensì che prodotti che non hanno a loro
sostegno prove di efficacia possano essere definiti medicinali.
L'autrice cita opportunamente anche la mozione del 18 marzo 2005 del Comitato
nazionale di bioetica (pp.202-206). Il Comitato fa notare che anche pratiche
di per sé innocue possono essere pericolose se causano un “ritardo nel
ricorso alle terapie fondate, il quale può provocare un peggioramento,
a volte irrimediabile, delle condizioni di salute” (p.202). Ritiene inoltre
che sia un errore concedere ai prodotti omeopatici una registrazione semplificata
e afferma correttamente che “è essenziale che si richieda […] la medesima
rispondenza agli standard di efficacia richiesta ai farmaci della medicina scientifica”
(p.203). Ineccepibile è anche il parere che non debba essere a carico
del servizio sanitario nazionale ciò che non è sostenuto da dimostrazioni
scientifiche di efficacia (p.205).
Panciroli prende in esame anche la decisione dell'Ordine dei medici, espressa
nel “documento di Terni” del 2002, di definire l'uso dell'omeopatia e di altre
pratiche “alternative” come terapie un atto medico e quindi di pertinenza esclusiva
di medici chirurghi e odontoiatri (p.194). L'idea alla base di tale decisione
era che un medico, qualora avesse fatto ricorso a tali pratiche, avrebbe comunque
fatto in modo di non sottrarre il paziente a terapie di provata efficacia e
avrebbe dato le informazioni corrette (pp.194-195). Tale scelta lascia però
delle perplessità ed è certamente fondato il dubbio espresso dall'autrice:
“Bisogna domandarsi, però, se un medico che pratica una terapia non convenzionale
sia davvero in grado di rispettare il principio del consenso informato: per
farlo, dovrebbe avvisare il paziente circa la mancanza di prove scientifiche
sull'efficacia delle terapie alternative, cosa che normalmente non avviene”
(p.199).
“Grazie all'avvento dei trial clinici randomizzati,” scrive Panciroli, “oggi
possiamo affermare con sicurezza che gli effetti dell'omeopatia non vadano oltre
un placebo. Se il dibattito non è certo chiuso, è anche vero che,
ormai, si tratta di uno scontro di idee tra chi accetta dogmaticamente una dimensione
sospesa tra magia e pseudoscienza e tra chi adotta i dati oggettivi che ci consegna
il metodo scientifico” (p.207; cfr pp.197-198).
Enrico Gazzola, Il
mondo quantistico : errate interpretazioni, teorie improbabili e bufale quantiche,
Roma : C'era una volta, 2017
Il libro spiega cosa è e soprattutto cosa non è
la fisica quantistica. Girano infatti diverse “bufale quantiche”. Molti sostenitori
di pseudoscienze, paranormale e idee new age affermano, senza alcun
fondamento, che le loro bizzarre idee trovano una conferma nelle scoperte della
fisica quantistica.
“Nella pseudoscienza oggi si dice “magnetico” o “quantistico”,” scrive Gazzola,
“ma il significato fisico dei termini è perso: è solo un modo
più moderno per dire magico, dando una parvenza di scientificità”
(p.173). L'uso improprio di questi termini può portare anche a situazioni
paradossali, come nel caso dei simpatizzanti della new age che, in
riferimento a un cambiamento epocale verso il quale il mondo sarebbe secondo
loro indirizzato, parlano di “salto quantico”, espressione che in realtà
“sta a indicare una transizione tra stati quantistici, la più piccola
variazione a cui un sistema possa andare incontro” (p.126).
Un ruolo di primo piano nella commistione tra concetti della meccanica quantistica
e idee misticheggianti è stato esercitato dal Fundamental Fysiks Group.
Ne fece parte Fritjof Capra, autore del best seller Il tao della fisica
nel quale vorrebbe dimostrare che ci sono notevoli analogie tra le filosofie
orientali e la fisica moderna. Come nota Gazzola, però, Capra “presenta
e interpreta i concetti fisici nella maniera che gli risulta più congeniale”.
I paralleli sono forzati e il libro risulta così “nel complesso molto
fuorviante per chi lo prenda per un testo divulgativo di Fisica” (pp.115-117).
Altri partecipanti al gruppo “portarono […] le forzature ben oltre Capra, rendendosi
responsabili di aver generato molto di quel nonsense pseudoscientifico attorno
a presunti collegamenti tra Meccanica Quantistica, spirito e paranormale”. Gazzola
ricorda i nomi di Gary Zukav, “un guru new-age privo di una formazione professionale
in Fisica”, di Jack Sarfatti e Elizabeth Rauschner, che si dedicarono a tematiche
del campo del paranormale, e di Fred Alan Wolf, sostenitore della “legge di
attrazione” (p.118).
David Kaiser, autore del libro Come gli hippie hanno salvato la fisica,
ritiene che queste speculazioni, anche se in sé discutibili, abbiano
comunque dato uno stimolo importante alla ricerca in fisica. Altri autori, come
Silvan Schweber e Peter Woit, però, ritengono che Kaiser sopravvaluti
il loro ruolo (pp.113, 115). L'autore si schiera con questi ultimi ritenendo
che “nel complesso […] i risultati scientifici scaturiti dal Fundamental
Fysiks Group, inclusi quelli indiretti, difficilmente possano compensare
quelli antiscientifici” (p.118). Tra chi entrò nel giro del Fundamental
Fysiks Group ci fu anche John Clauser che diede interessanti contributi alla
fisica, ma, precisa Gazzola, tali contributi non avevano nulla a che fare con
il gruppo (p.115).
Una “bufala quantica” che ha raccolto un certo successo è la “legge di
attrazione” secondo la quale la fisica quantistica direbbe che è possibile
influenzare gli eventi “attraendoli” in direzione dei propri desideri. Ciò
si basa su una versione riveduta e scorretta della questione dell'osservatore,
termine peraltro ritenuto dall'autore “infelice” (p.110) perché può
far pensare che si faccia riferimento necessariamente a un essere cosciente
(idea presentata in passato anche da fisici di spessore come John von Neumann
e Eugene Wigner, anche se la loro interpretazione, scrive Gazzola, “crea più
problemi di quanti ne risolva e non è oggi presa sul serio dai professionisti
del settore” – p.111).
Secondo l'interpretazione di Copenaghen, spiega Gazzola, “non ha senso chiedersi
quale fosse il valore di una certa quantità fisica prima della misura”
compiuta dall'osservatore “perché non era sempre ed oggettivamente definito”
(p.108). I sostenitori della “legge di attrazione” traggono l'erronea conclusione
che sia l'osservatore a determinare il valore e questo dimostrerebbe, a loro
dire, che la mente può influenzare la realtà “attraendo” i risultati
graditi. Tuttavia, scrive l'autore, “non solo la Meccanica Quantistica non giustifica
in alcun modo queste affermazioni, ma le nega decisamente. Se fosse vero che
l'osservatore può determinare il risultato di una misura, l'intero castello
della teoria crollerebbe. Verrebbe violato un elemento fondamentale, l'intrinseca
casualità del risultato della misura” (p.167).
Uno dei riferimenti dei fan della “legge di attrazione” è il film What
the bleep do we know? (pp.169-172), pieno di “frasi suadenti e depistanti”
come “la Fisica Quantistica è la fisica delle possibilità”. E'
strutturato come un documentario e vi compaiono personaggi popolari nel mondo
del misticismo quantico come Fred Alan Wolf, John Hagelin e Stuart Hameroff.
C'è anche il fisico David Albert che, però, ha riferito che dall'intervista
che gli era stata fatta erano state estratte alcune parti che, fuori dal contesto,
sembravano avallare le idee del film sulle quali, al contrario, aveva espresso
il suo dissenso (pp.170-171).
L'idea che l'osservatore cosciente crei “quantisticamente” la realtà
appare anche nel “biocentrismo” di Robert Lanza, un ricercatore nel campo delle
cellule staminali. Lanza cita la meccanica quantistica, il (presunto) ruolo
dell'osservatore e l'entanglement, ma il suo biocentrismo – scrive Gazzola –
“non spiega niente, non predice niente, non porta alcuna nuova informazione
sulla natura della coscienza o di qualunque altra cosa” (pp.214-218).
Un fisico spesso citato con favore dai cultori delle bufale quantiche è
David Bohm, ma, osserva Gazzola, tale predilezione è basata su un fraintendimento
delle sue affermazioni e sembrano rifarsi piuttosto a interpretazioni come quella
di Michael Talbot, le cui idee, però, “appaiono decisamente in contrasto
con gli intenti di Bohm”(p.159). Talbot voleva anche spiegare i fenomeni paranormali
con richiami alla meccanica quantistica con il risultato di proporre “una spiegazione
sbagliata per fenomeni la cui esistenza non è mai stata provata” (p.160).
Lo psicologo Carl Gustav Jung aveva sviluppato un interesse per le coincidenze
significative (come nel caso dei “sogni premonitori”) e pensava che, pur mancando
un nesso causale, dovesse esserci qualche forma di legame cui venne dato il
nome di “sincronicità”. All'idea di Jung si interessò un nome
di primo piano della meccanica quantistica, Wolfgang Pauli, “padre” del principio
di esclusione e premio Nobel per la fisica nel 1945 (pp.176-178). Anche se le
loro speculazioni non erano affatto convincenti (o forse proprio per questo?),
il concetto di sincronicità è diventato popolare negli ambienti
“alternativi” nei quali se ne fa un uso più spericolato di quello che
ne fecero Jung e Pauli (pp.178-179). Come osserva Gazzola, la caccia alla coincidenza
significativa pone diversi problemi. La memoria può ingannare. I ricordi
vengono rielaborati e l'evento successivo potrebbe influire su come viene ricordata
la sua predizione. Il cervello umano ha la tendenza a “individuare erroneamente
degli schemi inesistenti all'interno di un insieme di dati casuali”. Il verificarsi
di un evento molto improbabile può colpire l'attenzione, ma, in effetti,
che prima o poi accada è esattamente quel che ci si deve aspettare. Si
ricorda quando un evento coincide con qualche forma di presunta premonizione,
ma non si fa caso a tutte le possibili premonizioni che non sono seguite da
un fatto che ne appare la realizzazione. La stessa definizione di coincidenza
significativa, peraltro, “lascia ampio spazio all'arbitrarietà” (pp.179-182).
Nel libro sono citate diverse altri casi di pseudoscienza, dall'esperimento
(se così si può chiamarlo) di John Hagelin secondo il quale con
la meditazione trascendentale fatta in massa si poteva esercitare un influsso
positivo riducendo gli atti di criminalità a Washington (in realtà,
per sua sfortuna, gli capitò un brutto periodo, ma vantò lo stesso
un successo con un'interpretazione dei dati che “fu qualcosa di acrobatico”)
(pp.186-187) al progetto Stargate con il quale l'esercito statunitense voleva
valutare un possibile uso di presunti poteri paranormali a fini militari (p.188),
dalle curiose affermazioni di Masaru Emoto, secondo il quale “quando l'acqua
viene raffreddata fino a cristallizzare produce cristalli di ghiaccio di forme
più regolari se esposta ad emozioni positive” (p.197), ai test di Daryl
Bem sulla precognizione (pp.198-199).