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MAH, n.31, marzo 2013, pp.1-4

LIBRI

Richard Wiseman, Paranormale, Milano : Ponte alle Grazie, 2012.
Chiaroveggenza, esperienze extracorporee, telecinesi, spiritismo, fantasmi, lettura del pensiero, premonizioni e profezie: l’autore dimostra come questi presunti fenomeni paranormali, se studiati con razionalità e metodo scientifico, si rivelano sempre trucchi e illusioni.
Non ci vogliono doti paranormali per le manifestazioni di chiaroveggenza mostrate dai sensitivi. Basta un po’ di abilità nel parlare, nell’ascoltare, nell’osservare. Usando frasi vaghe, sondando il terreno con affermazioni prudenti che vengono ritoccate in base alle reazioni della persona che hanno davanti e con altri simili trucchi, conditi qua e là da qualche lusinga, si può far credere di sapere ciò che in realtà non si sa. Se si toglie la possibilità di ricorrere a questi espedienti, i presunti poteri paranormali scompaiono. Negli esperimenti condotti con metodo scientifico, “le prestazioni dei sensitivi non erano semplicemente migliori delle ipotesi casuali” (p.33).
Dei tavoli che si muovono nelle sedute spiritiche si occupò anche un grande nome della scienza come Michael Faraday (pp.164-168). Come è noto, nelle classiche sedute i partecipanti appoggiavano i palmi delle mani sul tavolo e restavano sorpresi quando lo sentivano muoversi. Faraday sovrappose al piano del tavolo una serie di strati di materiali tracciando sul bordo una riga verticale: dopo aver chiesto agli spiriti di spostare il tavolo a sinistra, “se una forza misteriosa avesse veramente agito sotto il tavolo, quest’ultimo si sarebbe mosso prima che lo facessero le mani dei partecipanti. Così gli strati inferiori di ogni fascio sarebbero scivolati sotto quelli superiori, facendo sì che la riga a matita si inclinasse da sinistra verso destra. Invece, se a muovere il tavolo fossero state le mani dei partecipanti, gli strati superiori di ogni fascio si sarebbero spostati prima di quelli inferiori, creando righe inclinate da destra verso sinistra”. Il risultato ottenuto fu, ovviamente, quest’ultimo. Esperimenti come questo (Wiseman descrive nel suo libro un’altra prova di Faraday) dimostrano che a muovere il tavolo sono in realtà i movimenti inconsci dei partecipanti alla seduta – quando poi, ovviamente, non si tratti di una truffa deliberata.
Il neuropsicologo Michael Persinger ha ipotizzato che “debolissimi campi magnetici all’esterno del cranio” possano causare alterazioni della percezione ed essere in tal modo responsabili di apparizioni di fantasmi e altre esperienze paranormali. Persinger ha quindi fatto degli esperimenti facendo indossare ai soggetti della prova un casco che generava tali campi. Anche studiosi del tutto scettici sul paranormale riferirono di aver provato sensazioni strane come essere afferrati a una gamba o uscire dal proprio corpo. Un risultato simile poteva essere accolto con favore dagli avversari del paranormale. Le scienze, però, diversamente dalle pseudoscienze, non accolgono un’affermazione in base al fatto che faccia comodo per la propria posizione, ma in base alle prove che offre. Tra coloro che avevano provato il “casco magico” ci fu anche chi, come il biologo Richard Dawkins, disse di non aver avvertito nulla di insolito. Per studiosi come Pehr Granqvist e Chris French l’ipotesi andava verificata “in cieco”: nei loro esperimenti solo alcuni dei partecipanti sarebbero stati esposti ai deboli campi elettromagnetici in questione e, ovviamente, i soggetti non avrebbero saputo se facevano parte del gruppo esposto ai campi o del gruppo di controllo. Anche in queste occasioni furono riferite strane sensazioni, ma ciò accadeva indipendentemente dal fatto che la persona che le aveva provate facesse parte del gruppo esposto ai campi o di quello che non lo era stato, il che portava a pensare che le sensazioni fossero un effetto della suggestione e non dei campi elettromagnetici (pp.233-236).

Ronald H. Fritze, Falsi miti : come si inventa quello in cui crediamo, Milano : Sironi, 2012.
La storia dovrebbe essere scritta per ricostruire quanto è realmente successo. Ci sono però autori che, per ragioni ideologiche o di mercato, preferiscono selezionare e presentare i fatti, o anche inventarli, in modo che si adeguino alle idee che vogliono sostenere. L’autore paragona questi pseudostorici (e pseudoscienziati) agli avvocati che “discutono per vincere le cause” più che per “arrivare alla verità oggettiva”. Per i veri storici (e scienziati), invece, “trovare la verità, o almeno avvicinarsi il più possibile, è fondamentale” (p.284).
Atlantide, a cui Fritze dedica un capitolo, è al centro di speculazioni senza fondamento storico.
Un altro argomento che attira molto gli appassionati di storie “alternative” sono i presunti sbarchi in America prima di Cristoforo Colombo. Il fatto in sé non è impossibile e, anzi, ci sono prove che sia avvenuto nel caso dei Vichinghi (anche se non tutte le presunte prove sono autentiche: la pietra di Kensington è un falso – pp.104-105). Ci sono, però, anche molti approdi che sono avvenuti solo nella fantasia di chi li sostiene senza portare prove reali.
Fritze ricorda che “il primo dei tentativi di togliere a Colombo il merito di avere scoperto l’America accadde quando lui era vivo”: è la storia del “capitano misterioso” (pp.94-95). Una nave sarebbe stata spinta verso l’America e solo un membro dell’equipaggio (il “capitano misterioso”, appunto) sarebbe sopravvissuto. Accolto da Colombo, gli avrebbe rivelato la scoperta e il navigatore avrebbe dunque raggiunto l’America seguendo le sue indicazioni. Bartolomé de Las Casas, il frate noto per la sua difesa degli indigeni, diceva che la storia era molto popolare.
Uno sbarco in America prima di Colombo è stato attribuito anche ai fratelli Zeno, veneziani (pp.97-98). C’è poi la storia del principe gallese Madoc e degli “indiani gallesi”, variamente identificati, che sarebbero stati i discendenti degli uomini che presero parte alla sua spedizione (pp. 98-104).
Il novero dei popoli che avrebbero raggiunto l’America prima di Colombo è ampio: genti africane (pp.105-109), Canaaniti (p.113), Fenici e Cartaginesi (pp.113-116), Ebrei (con particolare riferimento alle dieci tribù perdute di Israele – pp.117-123), Greci (p.123), Indiani (intesi, ovviamente, come abitanti dell’India – pp.124-125). Il libro in cui Gavin Menzies attribuiva ai Cinesi l’arrivo in America e la circumnavigazione del globo ha avuto grande popolarità, ma non porta argomenti convincenti. Il giudizio di Fritze, che dedica alcune pagine a questo caso (pp.126-136), è netto: “Il suo successo è stato il risultato di una massiccia campagna di marketing che ha ignorato gli studiosi affermati e l’opinione degli esperti a favore di una speculazione sensazionalistica e ingiustificata a ogni passo” (p.136).
Due capitoli sono dedicati a “cosmogonie razziste e pseudostoria”. Christian Identity sostiene che i bianchi sono discendenti di Adamo e delle dieci tribù perdute di Israele, mentre gli Ebrei discendono dall’unione tra Eva e il serpente e le altre etnie da genti esistenti prima di Adamo (i “preadamiti”) (pp.140-141). Le implicazioni pericolosamente razziste di queste interpretazioni infondate del testo biblico sono evidenti. La Nation of Islam, invece, ha avanzato l’idea che la gente eletta siano i neri, proponendosi di appoggiare questa affermazioni con curiosi miti sulle origini dell’umanità che, nonostante il nome del movimento, non hanno riscontro nella religione islamica (pp.197-198).
L’autore passa quindi a una rassegna dei nomi più famosi tra gli appassionati della pseudostoria. Immanuel Velikovsky (pp.219-250) ipotizzò una diversa cronologia per la storia egiziana, cercando paralleli forzati con la storia biblica. Una sua curiosa affermazione è che il passo della Bibbia in cui Giosuè ordina al Sole di fermarsi si possa spiegare con un vero arresto della rotazione terrestre causata dall’attrazione gravitazionale di Venere che a quei tempi sarebbe stato una cometa e sarebbe passato vicino alla Terra. Charles Hapgood (pp.250-261) sostenne l’ipotesi che la crosta terrestre scorresse sopra una parte fluida sottostante e divulgò l’idea che nella mappa di Piri Reis fosse raffigurata l’Antartide. Grande successo hanno avuto i libri di Erich von Daeniken (pp.261-274), Zecharia Sitchin (pp.274-279) e Graham Hancock (pp.279-283). D’altra parte, come nota Fritze, “le idee selvagge e folli costituiscono imprese editoriali significativamente più redditizie rispetto ai lavori ben fatti su argomenti tradizionali” (p.237). Fritze concede che quel che Ignatius Donnelly scrisse su Atlantide a quei tempi poteva anche essere “vagamente plausibile” e che ciò potrebbe valere per qualche idea di Velikovsky e Hapgood, mentre diverso è il caso di von Daeniken, Sitchin e Hancock: i loro scritti già al momento della pubblicazione erano basati su affermazioni, riprese anche dagli stessi Velikovsky e Hapgood, già ormai private di ogni plausibilità dal progresso delle conoscenze (pp.284-285).
L’ultimo capitolo del libro esamina la tesi di Martin Bernal secondo la quale la cultura greca avrebbe largamente ripreso quella egiziana e fenicia (pp.287-331). Secondo Bernal e chi appoggia la sua idea, la civiltà europea avrebbe voluto cancellare le tracce di queste presunte radici africane e asiatiche per una sorta di razzismo culturale. Fritze nota che le affermazioni di Bernal non hanno argomenti validi a loro sostegno e che “la maggior parte delle recensioni positive di Bernal sono state scritte da persone che non sono esperti” dei campi di cui si tratta, ma che “trovano politicamente congeniali” le sue idee (p.298).

Fabrizio Frongia, Le torri di Atlantide : identità e suggestioni preistoriche in Sardegna, Nuoro : Il Maestrale, 2012.
Dai falsi ottocenteschi alle apparizioni in televisione con storie di giganti e di Atlantide, l’autore esamina e smonta molte storie che sono nate in relazione alla storia della Sardegna e dei suoi reperti archeologici.
La vicenda dei falsi conosciuti come “carte d’Arborea” (pp.95-108) comincia nel 1845. Questi documenti volevano mostrare un primato della Sardegna nell’uso dell’italiano letterario, con l’invenzione di personaggi come Torbeno Falliti, “il Petrarca sardo”, e “la precedenza assoluta della lingua sarda su tutte le altre lingue romanze” (p.101). Comparve addirittura una poesia in sardo che sarebbe stata scritta ai tempi di Diocleziano (III-IV sec.) (p.102). Le carte suscitarono un grande interesse. Nel 1869 furono sottoposte al giudizio dell’Accademia delle scienze di Berlino e il risultato fu una cocente delusioni per i sostenitori della gloria letteraria sarda: Theodor Mommsen e Philipp Jaffé le bollarono come falsi (pp.106-107).
Un altro episodio ottocentesco di falsi fu quello delle statuette in rame presentate come idoli sardo-fenici (pp.109-116). Di questi idoli parlava anche una lettera datata 1497 inclusa in un minutario conosciuto come “manoscritto Gilj”. Il minutario era autentico, ma il testo della lettera era stato aggiunto fraudolentemente in uno spazio vuoto.
Se questi falsi sono stati scoperti e messi fuori dai giochi, l’idea che la Sardegna avrebbe avuto un passato glorioso che la storia scritta dai vincitori avrebbe occultato (cfr p.175) si è espressa per altre vie. Una di queste è l’identificazione degli antichi Sardi con gli Sherden o, nella forma oggi più in voga, Shardana, uno dei “popoli del mare” nominati in documenti egizi (pp.147-157). L’autore riferisce che già nell’Ottocento era stata proposta, con cautela, l’ipotesi di un legame tra la civiltà nuragica e gli Sherden, ma la popolarità è cresciuta, e la cautela diminuita, negli ultimi decenni, come mostra il libro di Leonardo Melis Shardana : i popoli del mare (2002), dove si va anche oltre il citato collegamento. “Sulla base del solido nesso onomastico Danai-Sherdan”, scrive con ironia Frongia, viene ipotizzato anche “un ruolo determinante dei Sardi nella nascita del popolo greco” (p.155) e “sulla base ancora di una semplice assonanza” gli Shardana sono accostati anche alla tribù di Dan, una delle dodici tribù di Israele (p.157). La conclusione di Frongia è che “tutte le argomentazioni addotte a sostegno di questa teoria sono nella sostanza piuttosto deboli e opinabili. Non è certo un caso che gli archeologi sardi all’unisono rifiutino questa assimilazione tra la civiltà nuragica e quella dei “Popoli del mare”, ritenendo le prove quantomeno insufficienti” (p.151).
C’è anche chi ritiene che esista un’antica scrittura sarda (pp.160-164). L’idea, sostenuta in particolare da Luigi Sanna, è basata su “reperti perlopiù di natura incerta” che lasciano dubbi sull’autentici, sull’appartenenza all’età nuragica, sul fatto che si tratti realmente di segni di scrittura (p.161). Si tratterebbe di una lingua semitica che incorpora elementi lessicali di origine indoeuropea e ciò dimostrerebbe “che i Sardi parlavano un idioma indoeuropeo già nel lontano II millennio a. C., ben prima dunque dell’arrivo dei Romani in Sardegna […], una lingua “gemella” del latino preromano, che addirittura lo precederebbe cronologicamente” (p.162). Anche in questo caso, si tratta di affermazioni che mancano di riscontri convincenti e sono dunque “osteggiate da tutto il mondo scientifico isolano” (p.164).
Un’idea piuttosto popolare tra i cultori di misteri è quella che la Terra sarebbe attraversata da linee di energia e che i popoli dell’antichità, conoscendole, avrebbero costruito dei monumenti in corrispondenza di punti con una speciale, quanto imprecisata, energia. Una versione sarda di queste idee è stata esposta da Mauro Aresu, che afferma che i monumenti isolani come i nuraghi o le “tombe dei giganti” sarebbero stati costruiti in luoghi dove si farebbero sentire benefici “flussi energetici” che permetterebbero di godere di questa “magnetoterapia naturale”. Come commenta Frongia, si tratta ovviamente di “teorie del tutto inattendibili” (pp.170-173).
Un’altra curiosa storia è quella seconda la quale la Sardegna sarebbe stata popolata da giganti (pp.173-175). Tra chi lo sostiene c’è Luigi Muscas. Le sue affermazioni, scrive Frongia, “fanno registrare la massima distanza rispetto ad un ideale di seria indagine scientifica”, ma nonostante ciò (ma forse sarebbe meglio dire “proprio per questo”) Muscas è andato a esporle anche in televisione (alla trasmissione “Mistero”, nota per la sua ospitalità ad ogni sorta di idee bizzarre).
Un notevole successo ha raccolto la proposta di identificare la Sardegna addirittura con la leggendaria Atlantide, che ha il suo alfiere in Sergio Frau (pp.212-269). Per quanto manchi ogni base per tale collegamento (e, se è per questo, anche per dire che Atlantide sia mai esistita fuori dalla fantasia di Platone e di chi ha ripreso il suo racconto), la storia è arrivata sulle pagine dei giornali (Frau è un giornalista del quotidiano “La Repubblica”) ed è stata portata in televisione non solo dal solito Roberto Giacobbo nel suo programma “Voyager” o da Syusy Blady in “Misteri per caso”, ma anche dal geologo Mario Tozzi, nel più serio programma “Gaia, il pianeta che vive” (pp.250-252). Frongia mostra come anche i politici locali si siano buttati sulla storia dell’Atlantide sarda (pp.252-269). Potrà anche sembrare una possibilità in più per il turismo, ma, nota l’autore, l’attenzione rivolta alle fittizie storie atlantidee rischia di sottrarre spazio e risorse alla ricerca seria sulle vere ricchezze archeologiche della Sardegna.